Uno scienziato dello spirito incarnato nel gesto della scrittura
Ritratti La scomparsa di Armando Petrucci, grande paleografo del nostro tempo. In ognuno dei passaggi dalla «mente alla mano», vide con lucidità la testimonianza di maniere di vivere che si traducono in modi di scrivere, di forme culturali calate in modelli grafici
Ritratti La scomparsa di Armando Petrucci, grande paleografo del nostro tempo. In ognuno dei passaggi dalla «mente alla mano», vide con lucidità la testimonianza di maniere di vivere che si traducono in modi di scrivere, di forme culturali calate in modelli grafici
I libri sono creati dalle mani degli uomini, e si muovono per il mondo sulle loro gambe», diceva spesso Armando Petrucci, forse il più grande paleografo del nostro tempo, scomparso lunedì a Pisa, dove aveva a lungo insegnato alla Scuola Normale Superiore dopo un importante magistero alla Sapienza di Roma.
L’idea era profondamente umanistica e politica, come ogni parola e ogni pensiero di Petrucci. Non c’è nulla, nella storia dell’uomo, che possa ricondursi solo al pensiero: conta in primo luogo la fisicità degli oggetti che mettiamo al mondo lavorando con il cervello, la materialità dei gesti che gli individui compiono per lasciare traccia durevole della propria esistenza e per trasmettere alle civiltà future le proprie conquiste, le proprie fatiche, i propri sogni.
IN QUEL CAPOLAVORO della storiografia moderna che è l’Apologia della storia o Mestiere di storico Marc Bloch scrisse che «il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda». Così possiamo dire oggi, con la memoria ancora ferita dalla notizia della morte di Armando Petrucci: dietro le carte, le pergamene, i libri, i documenti, i monumenti letterari, come pochi altri maestri lui ci ha insegnato a riconoscere l’altissima disposizione culturale che Dante, nel De vulgari eloquentia, definiva humana sequi, «seguir virtute e conoscenza». Come ogni storico di grande classe Petrucci fiutò e cercò sempre «carne umana»: cioè creature, uomini e donne in carne e ossa che furono vivi su questa terra e dei quali, dopo il loro svanire materiale, conserviamo ancora lo spirito, i segni, le idee, l’arricchimento della civiltà tradotto in segni grafici.
In questa prospettiva Marc Bloch, nella dedica del suo libro a Lucien Febvre, indicava la rotta dell’umanesimo di ogni ricerca storica: «A lungo e concordemente abbiamo lottato per una storia più ampia e più umana». E Petrucci condivise nei fatti la definizione del lavoro di storico che lo stesso Bloch cesellò con grande umiltà: «il memento di un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio compito quotidiano, il taccuino di un operaio che, pur avendo a lungo maneggiato tesa e livello, non si crede, per ciò, un matematico».
Un operaio della cultura è stato, davvero, Armando Petrucci. Un intellettuale fine e colto, capace di innovare come pochi non solo il proprio settore scientifico, ma molti altri contigui, con un rigore e una passione che solo i grandi umanisti sanno immettere nella fatica della ricerca.
Soprattutto, Petrucci fu sempre attentissimo a cogliere nel proprio tempo l’eco di una vicenda antica e ininterrotta. Fu maestro nello scovare il significato simbolico della disposizione sulla pagina di un testo classico. Nel cogliere il valore di «scritture avventizie» giunte fortunosamente come messaggi affidati a una bottiglia nell’oceano del tempo: prove di penna, impulsi a incidere il proprio «io» su supporti non destinati alla scrittura come un muro o un affresco, indovinelli con cui si avviava un volgare fino ad allora mai scritto.
NELL’ESAMINARE il sistema delle «scritture esposte» con cui in ogni tempo il potere ha esibito la propria forza e la propria vana volontà di sconfiggere la morte. Nel restituire il senso storico-letterario della sequenza con cui si alternarono molti scribi per comporre un fondamentale canzoniere delle origini liriche italiane. Nel ridar vita alle più quotidiane impronte della mano umana in un libro di conti o di memorie mercantili. Addirittura nel cogliere il senso antropologico dei «pizzini» mafiosi vergati da semianalfabeti per trasmettere ordini criminali.
In ognuno di questi passaggi dalla mente alla mano Petrucci vide con lucidità la testimonianza di maniere di vivere che si traducono in modi di scrivere, di forme culturali calate in modelli grafici. Non a caso «Scrittura e Civiltà» si intitolava la rivista che fondò e diresse a lungo, e che aprì prospettive originalissime sulla storia delle scritture e sul gesto dello scrivere, sempre in equilibrio intelligente e coraggioso fra la storia, la letteratura, l’antropologia.
Come Giorgio Raimondo Cardona, magistrale etnolinguista e glottologo troppo presto strappato via dal destino, la cui Antropologia della scrittura (Mondadori, 1982) Petrucci ripropose per Utet nel 2009 con una intensa prefazione, anche Armando ci ha insegnato a ripercorrere il movimento dalla mente alla mano con cui l’idea si fa azione e cosa, testimonianza e eredità. Come Cardona, su altri piani, anche Petrucci ha messo in luce i più segreti aspetti antropologici, sociologici, letterari, artistici, celati nei sistemi di comunicazione grafica, e ha fatto risaltare l’importanza del rapporto fra il pensiero istantaneo e il lento moto della mano che, inseguendo quel flusso fulmineo, crea semplici manufatti e opere d’arte, allinea lettere per dare corpo di parola alle idee.
Con un’attività formidabile di riflessione sul metodo e di studio specialistico applicato alla storia materiale dei libri, Petrucci ha contribuito come pochi a fare della paleografia una scienza dello spirito incarnato nel movimento della scrittura, dimostrando come le strutture del pensare si riflettono nell’invenzione di modi di produzione e di organizzazione dei testi, nella forma materiale dei libri, nell’architettura segreta delle pagine.
I suoi molti, fondamentali saggi dedicati alla letteratura italiana nell’arco lunghissimo di un millennio di storia, raccolti un anno fa presso Carocci con il titolo Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, ci hanno insegnato a riesaminare la storia letteraria come somma delle tracce di innumerevoli mani di altri operai della cultura: autori celebri e oscuri, copisti spesso anonimi, editori capaci di costruire un libro come un edificio del pensiero, lettori che spinti dal desiderio di dialogare con il «loro» scrittore hanno depositato una postilla, un appunto, un nome, su un foglio destinato a restare nel tempo, e poi a svanire, come ogni altra cosa terrestre.
RESTARE, FAR MEMORIA, agire nella storia, scomparire. È la vicenda umana, che la scrittura riassume per sineddoche. Credo che nessuna frase si addica a sintetizzare il prezioso lavoro di questo grande storico della cultura quanto la celebre definizione con cui Galilei, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, definisce la scrittura come la somma invenzione umana, assai più rilevante del telescopio o degli strumenti di raffinata tecnologia: «Sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta».
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