Università, abilitazioni nazionali: cambiare paradigma
Saperi E' iniziata la seconda fase: quella delle polemiche e dei ricorsi che trascinerà avanti le procedure per anni a venire con altri costi enormi. Bisogna scegliere un'altra strada, ma quale? Una proposta
Saperi E' iniziata la seconda fase: quella delle polemiche e dei ricorsi che trascinerà avanti le procedure per anni a venire con altri costi enormi. Bisogna scegliere un'altra strada, ma quale? Una proposta
Strano paese il nostro. Tra poco iniziano i mondiali di calcio e la gente si prepara a tifare per l’Italia sperando di vincere. Nessuna sorpresa, si fa così, e magari si vince anche. Però a tifare per l’università italiana o anche solo a cercare di capire per quali ragioni le nostre Università, anche le migliori, anche le più famose nel mondo intero, si contendono posizioni da squadra di calcio di serie C1, ci si trova in pochi.
Eppure è noto a tutti che la ricchezza del paese, le sue aziende grandi e piccole, la sua industria culturale e creativa, lo sfruttamento dei suoi beni culturali, e l’occupabilità di tanti giovani che escono dall’università con una laurea o un titolo di dottore dipendono molto di più dall’università che dal campionato di calcio. Invece lo sport nazionale sembra un altro: “a parlar male dell’Università ci si prende sempre”. Al momento l’argomento che “tira” sui blog e sui quotidiani è quello dei risultati delle abilitazioni scientifiche nazionali (ASN) per i ruoli di professore universitario.
Al termine di una operazione di proporzioni bibliche (sono quasi 70.000 i docenti si sono sottoposti a valutazione coinvolgendo un migliaio di commissari, decine di migliaia di ore di lavoro, di telefonate, centinaia di riunioni, treni, voli, taxi, alberghi, ecc., nessuno saprà mai a quanto ammonta veramente il costo totale…) è iniziata la fase 2: quella delle polemiche e dei ricorsi che trascinerà avanti le procedure per anni a venire con altri costi enormi che ricadranno sui singoli e sulla comunità. Il tema è affrontato dalla stampa con il consueto approccio scandalistico, il che è anche giusto perché in alcuni casi di veri scandali si tratta.
Ma non c’è nulla di nuovo, le cause sono sempre le stesse e le ingiustizie spesso causate dalle stesse persone. Sono il risultato, certamente minoritario ma non di meno preoccupante, dello scollamento del nostro sistema universitario da quelli del resto del mondo. Siamo una penisola dell’Europa ma abbiamo la mentalità dell’isola, quando non del pianeta separato (per quanto riguarda l’università, non per il calcio). Una manifestazione plastica di questa differenza è proprio il modo in cui continuiamo a trattare reclutamento e promozione universitaria. Dopo i concorsoni nazionali con commissioni elette e/o sorteggiate, e i concorsini locali con tre idonei e poi con due, adesso abbiamo l’ASN a monte dei concorsi locali (ex art. 24 o ex art. 18?). Possiamo dire di averle provate tutte.
Tutti questi sistemi, tuttavia, hanno in comune l’idea base del concorso pubblico applicato a qualsiasi livello. Lo dice la Costituzione: nel settore pubblico si entra per concorso. Giusto, guai mai.
E se a essere sbagliato fosse invece la pretesa di separare la responsabilità di chi sceglie (commissioni nazionali) da quella di chi assume e promuove (le singole università)? E’ un argomento delicato perché la separazione dei due momenti – selezione e assunzione – dovrebbe essere garanzia di terzietà. Ma in molto casi non è così, anzi spesso finisce per costituire l’alibi delle scelte meno decenti.
Qual è l’idea base di un concorso? Scegliere i migliori tra tanti che possono svolgere la stessa mansione, si direbbe. L’intercambiabilità è quindi il principio alla base di un concorso nel pubblico impiego. Ma all’università non è così. Solo chi non conosce l’università, e forse non sa nemmeno bene a cosa serve, pensa che i docenti universitari siano intercambiabili (basta insegnare bene la matematica, la chimica, il diritto ecc.).
Insegnare è solo una parte del lavoro universitario, perché all’università si trasmette il sapere che si produce, e il sapere si produce con lo studio e la ricerca, e la ricerca ha necessità di finanziamenti, e questi vanno “conquistati” interagendo con il sistema produttivo o in Europa in competizione con altri sistemi universitari.
Anche gli studenti vanno conquistati, offrendo la formazione migliore, e anche questa si raggiunge mediante la ricerca. All’università nessuno fa lo stesso lavoro di un altro, come in una squadra di calcio. Proviamo a cambiare paradigma. Dove sta scritto che le Università non possono reclutare e promuovere chi serve e quando serve? Un posto, un vincitore, in modo trasparente. Costerà meno e farà emergere responsabilità più chiare.
*Prorettore alla Ricerca Università di Bologna
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