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Universi linguistici del tatuaggio

Divano L’esibizione del corpo va riconosciuta come una vitale necessità. È formulare una relazione. È articolare i fondamenti di un linguaggio. È dichiarare d’essere in grado di rispondere a tono o corrispondere, conversare, dar conto di me con il corpo, mio unico possesso

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 4 agosto 2017

In Piazza di Spagna mi sento il capitano Cook alle isole Sandwich. L’esibizione del corpo sembra divenuto un tratto essenziale della comunicazione giornaliera.

Provo a dir meglio. I modi della relazione interpersonale hanno per lo più campo e si attestano come esibizione del corpo. Di un corpo sempre più scoperto, in coerenza con una accelerata propensione allo star spogli, nudi. Le proposte della moda tendono ad affermare o la mascheratura o la tendenziale riduzione all’estremo delle vesti, dell’abbiglio. Mascheratura è ora il recupero di suggestioni esotiche, ora l’imitazione di un personaggio tipo di vasta notorietà mediatica.

Mascheratura è il vintage: indossare fogge del passato ricavate dal cinema, dalla televisione e dalla fotografia di ieri, ridisegnate con ironia, talvolta, o, assai spesso, suggerite nel nome d’una nostalgia esteriore, accolta senza consapevolezza storica. Una messa in maschera, appunto, che illude stili canonizzati o assicura una supposta eleganza ‘garantita’. Penso ai giovani, alle maturità limitate e deboli; alle consapevolezze interdette, stordite e senza basi; alle maniere omologate sugli stereotipi espressivi dei cartoni animati. Penso a quella moltitudine sospesa che staziona senza potere o volere o sapere incidere sulla propria vita. Giovani senza occupazione e senza competenze che la vita tirano tra una pizza, uno smartphone e un crack ritenuto innocente. Vite campate in un tempo e in uno spazio virtuali delle emozioni e della mente dove il nudo corpo è l’unico punto di tenuta, l’ubi consistam che giustifica me a me stesso e agli altri.

L’esibizione del corpo, allora, va riconosciuta come una vitale necessità. È formulare una relazione. È articolare i fondamenti di un linguaggio. È dichiarare d’essere in grado di rispondere a tono o corrispondere, conversare, dar conto di me con il corpo, mio unico possesso. Io: non un lavoro, non un talento, non una collocazione sociale certa. Nel transito permanente da un posto a un altro, da una immagine a un’altra, da un twitter a un altro: che e quando e dove sono io realmente? Io è il mio corpo. L’io che si alimenta e conosce se stesso nella relazione verbale è tralasciato e inaridito, atrofizzato. L’io o fa parlante il corpo e così si afferma e si riconosce, o io non è. Sempre più si estende tra gli adolescenti questo attenersi al corpo e alimentarne le modalità comunicative immediate. Una tale riduzione della relazione sociale al nudo corpo spiega il diffondersi del tatuaggio come universo linguistico generalizzato. Una acculturazione che dipende dai social, che si muove tra immagini virtuali, che poco o niente apprende per via di lettura e di scrittura assume i codici delle civiltà ‘elementari’. Quelle culture, che affidano ai segni corporali e ai gesti l’interpretazione e la corrispondenza interpersonale e sociale, paiono tornare quali portatrici di un patrimonio di umanità.

Umanità che il tatuaggio deriva dalla osservazione della potenza comunicativa dei segni linguistici nel corpo degli animali. E una dimensione animale, nella primazia corporale che cresce, sembra estendersi con una diffusione assai vasta e di rapida omologazione. Attorno alle lingue parlate e scritte, del resto, si stringono concentrici assedi che le sottopongono a disagi e conflitti, a ibridazioni, immiserimenti e snaturamenti babelici. Nel predominio dell’immagine abbiglio il mio corpo di immagini cucite o tatuate. Se esibire è il mio linguaggio, parlo con il tatuaggio che mostro. La parola è limitata, spesso sostituita da una vocalità espressiva, da un certo numero di versi, di richiami che segnalano al mio interlocutore il mio stato emotivo. Constato la gran fortuna di cui godono le immagini di morte tra i giovani tatuati. Teschi, scheletri, volti dai lineamenti in sepolcrale decomposizione. Cerco di capire il significato di quelle parole di morte illustrate su un bicipite, su un’anca. Nel mio turbamento mi chiedo: a chi sono rivolte? Che conversazione esigono? Quale senso della vita affermano? E chiedo ausilio agli strumenti che può fornire la mia cultura. I più mi si rivelano fuorvianti e semplificatori. Comprendo come sia da approntare una ermeneutica adeguata che, al momento, poco, o niente, posseggo.

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