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Universi femminili da Harlem alle Banlieue

Universi femminili da Harlem alle BanlieueUna scena da «Passing», debutto alla regia per Rebecca Hall

Cinema Al Sundance il debutto alla regia di Rebecca Hall, «Passing», e «Land» diretto da Robin Wright

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 3 febbraio 2021

«La versione mainstream di un film di Kelly Reichardt». Così, il critico di Variety Peter Debruge ha entusiasticamente descritto Land. La maldestra definizione, in una recensione per altro molto positiva, riesce a insultare in un colpo solo la regista del film (presentato nella sezione Premiere), Robin Wright, e la stessa Reichardt, uno degli autori americani più originali, raffinati e stimati di oggi, che era stata lanciata proprio al Sundance, nel 1994, con River of Grass. La gaffe di Debruge conferma anche l’irresistibile impulso di accorpare una all’altra le registe donne, come se si trattasse di una specie «a sé» – impulso a cui Reichardt si è ribellata fin dall’inizio e che anche Robin Wright (formatasi dietro alla macchina da presa dirigendo episodi di House of Cards) sembra resistere, visto che il suo primo film lavora invece su un filone molto «maschile», quello del survivalismo. Su sceneggiatura di Jesse Chatman e Erin Digman (già collaboratrice di Wright in Tre giorni per la verità (Love, Denial e The Crossing Guard), filtrata dalla fotografia di Bobby Bukowski (The Messenger, 99 Homes) Land è la storia di Edee (Wright) che, segnata da una tragedia di cui inizialmente non conosciamo la natura, si rifugia nelle montagne del Wyoming, lasciandosi dietro tutto, automobile e cellulare inclusi.

PROTETTA DAI CADENTI MURI di legno di una capanna abbandonata, che in un battibaleno viene invasa da un orso, Edee sfida la natura come un mountain man – l’idea è quella di mantenersi cacciando e coltivando la terra, occupazioni di cui non sa nulla ma che intende apprendere da manuali. Gli unici libri che si è portata. Morirebbe di freddo e fame entro la prima mezz’ora di film se non fosse per Demian Bishir, un cacciatore di passaggio, che la soccorre e con cui – nello scorrere delle stagioni, tesserà un rapporto, a distanza ravvicinata, fatto di lezioni di caccia e della promessa di non portare sulla montagna le news di ciò che sta a valle. Wright evita il potenziale ridicolo, costituito dallo spettacolo di una star hollywoodiana che si costruisce addosso un film in cui rinuncia a tutto, con un’interpretazione come sempre trattenuta e onesta, e una narrazione semplice, scandita da albe, tramonti e gesti quotidiani.

LA SCENEGGIATURA, purtroppo, non l’aiuta a portare il film (e la sua ambizione) nelle profondità emotiva, psicologica ed estetica di cui avrebbe bisogno per elevarsi al di sopra della sua simpatica naïveté. Un altro debutto di attrice dietro alla macchina da presa a Sundance 2021 è quello dell’inglese Rebecca Hall. Passing (in concorso fiction) è tratto dal romanzo omonimo della scrittrice Nella Larsen, pubblicato nel 1929, e ambientato nella Harlem dei Twenties. Clare (Ruth Negga) e Irene (Tessa Thompson) sono due amiche d’infanzia, entrambe biracial (come Larsen) che si ritrovano per caso, e con un certo imbarazzo, in un ristorante della downtown, dove Irene scopre che Clare si fa passare per bianca, anche da suo marito John (Alexander Skarsgard), un razzista allegramente dichiarato. D’improvviso attratta da un mondo che ha cercato disperatamente di rimuovere, Clare cerca l’amicizia di Irene e di suo marito e la loro vivace social life nella comunità nera benestante di Harlem, che Hall ricostruisce con cura, aiutata dall’elegante fotografia dello spagnolo Edu Grau. Ma il film si ferma tutto sulle superfici – del conflitto d’identità di Clare, dell’ambiguità quasi erotica nel rapporto tra le due amiche, o tra Clare e il marito di Irene – affascinato dalla premessa del libro ma incapace di abbracciarne appieno sia il mistero che il melodramma. Una scelta più coraggiosa sarebbe stata usare il colore invece del bianco e nero.

Robin Wright in “Land”

IN BIANCO E NERO anche un altro film d’universo femminile, El Planeta, una produzione Usa/Spagna, presentato nel concorso internazionale, scritto e diretto dall’artista argentina Amalia Ulman. Come spesso nelle sue installazioni (tra le più famose Excellences & Perfections, a puntate su Instagram nel 2014), Ulman è la protagonista, affiancata in questo caso da sua madre, Ale. El Planeta è infatti un duetto mamma/figlia sullo sfondo di Gijon, la città costiera spagnola dove è cresciuta anche l’autrice. Ma il soggetto non ha nulla di autobiografico, ed è stato invece ispirato da due personaggi della cronaca locale. Leonore (Amalia), dopo la morte del padre, è appena tornata da Londra, dove ha studiato. Sua madre, che non ha un soldo ma vive avvolta in una pelliccia, sta per essere sfrattata. Quella deadline più o meno imprecisata all’orizzonte che incombe su di loro, le due donne trascorrono il loro tempo -il timing è a cavallo tra la sitcom e l’avventura picaresca- andando al ristorante, al salone di bellezza, dal pasticcere…come se niente fosse. I conti lasciati da pagare a un fidanzato famoso che forse non esiste, nomi di conoscenze importanti fatti cadere dall’alto, un po’ di shoplifting qua e là, che passa inosservato dietro all’apparenza elegante.

UNA NOTTE TRASCORSA con uno sconosciuto romantico ha un finale acido per Leonore, mentre Ale considera per un momento l’opportunità di prostituirsi (con cameo del regista Nacho Vigalondo) per poi decidere che non frutta abbastanza. Azzeccatissima vignetta di emarginazione che sopravvive in una fantasia di se stessa, rosicchiando ai bordi del mondo della buona borghesia come alcuni personaggi di Edith Warthon, El Planeta è divertente e spensierato, ma anche acido al punto giusto. Sempre nell’ottica degli universi femminili esplorati quest’anno al festival, è da segnalare anche il documentario Cusp, ritratto di un gruppo di teen ager in una comunità povera del Texas, diretto da Parker Hill e Isabel Bethencourt e il suo corrispettivo nella banlieu parigina, la serie indipendente Would You Rather (Tu prefere) – episodi di dieci minuti, scritti e recitati nel ritmo vertiginoso di una screwball. La serie è creata da Lise Akoka e Romane Gueret per Artè.

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