Un’intelligenza che va oltre la nostra presa
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Un’intelligenza che va oltre la nostra presa

Saggi Il neuroscienziato Manfred Spitzer nel suo nuovo libro edito da Corbaccio scrive su opportunità e rischi dell’IA
Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 19 settembre 2024

C’è una celebre frase del poeta vittoriano Robert Browning abbastanza calzante per descrivere alcuni dei processi a cui stiamo assistendo dall’interno di questa rivoluzione tecnologica: «La portata dell’uomo deve andare oltre la sua presa». A tal proposito, è curioso come, visti i limiti della nostra intelligenza, abbiamo messo a punto dei sofisticati cervelli artificiali che arrivano fin dove noi non riusciamo ad arrivare. È curioso e anche, per certi versi, spaventoso – ma questa non è una novità.

SICURAMENTE, un ottimo sunto della questione lo offre il neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer, nel suo libro Intelligenza artificiale. Opportunità e rischi di una rivoluzione che sta cambiando il mondo (traduzione di Mara Ronchetti, Corbaccio, pp. 330, euro 22). Spitzer, che sabato sarà ospite della rassegna Pordenonelegge (ore 17, Spazio Gabelli con Vincenzo Della Mea), presenta in maniera esauriente il mondo delle IA, procedendo a eliminare ogni fraintendimento e pregiudizio in merito.

Uno su tutti è la comune credenza che l’Intelligenza artificiale sia in fondo solo un «computer», utile sì per una certa risoluzione, per dir così, «robotica» dei problemi, ma assolutamente privo della dote umana dell’intuito, quella scintilla indefinibile con cui risolviamo problemi senza ricorrere a un ragionamento complesso. L’Intelligenza artificiale, al contrario, è costruita proprio prendendo a modello il cervello umano, e il modo in cui ragiona ha per questo molte affinità col modo in cui funzionano i nostri neuroni. L’IA, per dirla in breve, è anch’essa dotata di una sorta di intuito proprio, e, per smontare un’altra convinzione su cui si arrocca l’uomo della strada, di una certa «creatività» nella risoluzione dei problemi.

NE SANNO QUALCOSA i giocatori di Go, un gioco coreano simile agli scacchi antico più di tremila anni. In Corea il Go è un passatempo seguitissimo, e i giocatori sono considerati alla stregua di divi. Nel 2016, il celebre giocatore Lee Sedol venne impietosamente sconfitto dall’Intelligenza artificiale AlphaGo, con mosse che, come riporta Spitzer, «erano state meravigliose, intuitive e creative». Per questo motivo, quell’anno si registrò un’altissima percentuale di coreani che si dicevano «profondamente depressi». Fatto interessante: in fondo, gli appassionati di Go non avrebbero dovuto essere contenti? Potevano assistere a partite di Gogiocate in maniera egregia, dove l’IA sfoderava mosse che la creatività umana non aveva congegnato in tremila anni di partite. In realtà, non è difficile comprendere la depressione dei coreani all’indomani della sconfitta di Sedol. La depressione serpeggiava perché vedere l’IA giocare a quei livelli rendeva, in un certo modo, le partite tra umani obsolete. Si tratta forse di solidarietà di specie? O è la paura che l’IA prenda il sopravvento su di noi? Oppure l’amarezza del constatare non solo che l’essere umano è limitato, ma che lo è anche di molto rispetto a queste invenzioni di nuova produzione? Scegliete voi una possibile risposta, e aggiungetene di vostre.

Nel frattempo, un’altra domanda si profila davanti a noi. Una domanda dagli echi quasi metafisici, che sfiora raramente il dibattito sull’Intelligenza artificiale: cosa stiamo cercando di fare? Efficientare, certo, velocizzare la produzione e, potremmo dire, ottimizzare la nostra permanenza su questa terra, oltre che la nostra dominazione sulla realtà tutta. Ma oltre a queste risposte meramente utilitaristiche che giustificano solo a metà l’entusiasmo per l’IA – avete mai visto tanto entusiasmo per i miracoli dell’agricoltura idroponica? – la domanda si pone a un livello ancora più alto. Abbiamo l’onore di assistere a un cambiamento della nostra società che forse non ha pari nella storia umana, almeno recente. Eppure, di fronte a questo processo incessante e inarrestabile, a cui l’umanità si vota senza quasi voltarsi, la domanda è ancora lì: cosa stiamo cercando di fare?

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