Un’infanzia vissuta con l’inganno
Intervista La scrittrice norvegese Ingvild Rishøi parla del suo libro «La porta delle stelle», edito da Iperborea
Intervista La scrittrice norvegese Ingvild Rishøi parla del suo libro «La porta delle stelle», edito da Iperborea
Che nessuno possa «sfuggire né alla propria testa né al mondo» sembra una banale evidenza, alla quale c’è ben poco da obiettare. Eppure la sentenza, formulata come la repentina scoperta di un bambino, suona come la fulminea consapevolezza di una condanna a una prigione senza scampo: «Siamo tutti prigionieri della nostra testa e guardiamo dagli occhi come un gatto in una gabbia». È così che appare la realtà attraverso lo sguardo di Ingvild Rishøi (La porta delle stelle, traduzione di Maria Valeria D’Avino, Iperborea, pp. 156, euro 17,00), nell’asciutta descrizione fenomenologica di un vissuto che però si colora di stupore infantile. Sì, perché i protagonisti della scrittrice norvegese – già vincitrice di prestigiosi premi in patria a partire dal 2012 per diverse raccolte di racconti (Sult, Brage, Critica Norvegese, Dobloug) – sono spesso bambini, anche se le storie hanno una statura da adulti.
La porta delle stelle è un romanzo breve che porta finalmente in Italia Rishøi con una fiaba di ambientazione natalizia che del Natale mette però in luce la capacità – come nella migliore tradizione fiabesca – di esaltare le contraddizioni sulle quali è edificata la nostra società. Senza alcun clamore, senza alcuna polemica, soltanto attraverso uno sguardo che non condanna, ma osserva cercando quasi per istinto di sopravvivenza il bene, per quanto siamo decisamente lontani dalla retorica del lieto fine.
La protagonista è la piccola Ronja, che con la sorella Melissa – adolescente – deve far fronte a un padre alcolista incapace di mantenere un lavoro per più di poche settimane. Ma si sta avvicinando il Natale e una ditta cerca un venditore di alberi. Forse sarà la volta buona?
Il suo stile letterario estremamente asciutto è una cosa sola con la storia che racconta, eppure non si tratta di minimalismo, le frasi sono ricche come sguardi sensibili ma rapidi. È una scrittura istintiva o il risultato di una poetica accuratamente elaborata? Quanto è stata influenzata dalle fiabe di H.C. Andersen?
Il processo di scrittura per me si divide in due parti distinte: creazione e revisione-modifica. Nella prima parte sono come un bambino che si presta ai giochi di ruolo: nella mia testa visualizzo un mondo e butto giù appunti che diventano il mio materiale grezzo. C’è molta scrittura scadente in questo materiale, ci sono tantissime persone e avvenimenti che non saranno presenti nel testo finale, e ci possono essere anche quattro o cinque modi diversi di esprimere la stessa frase. Ma l’importante per me è che sia materiale scritto di getto, liberamente. Poi rivedo il testo, quello di editing è un vero e proprio «mestiere»: non ha nulla a che fare con l’ispirazione. Distendo il testo grezzo sul pavimento e cerco frasi, eventi o descrizioni che trasmettono qualcosa. E allora cerco di creare una storia partendo da qui: tutto il resto lo butto. Ed è un piacere liberarsene. Quando ero bambina, i miei genitori mi leggevano molte fiabe, anche quelle di Andersen, ma soprattutto quelle della tradizione norvegese, che hanno una struttura molto rigida: tre fratelli, un cattivo, un «aiutante», e tutto accade per tre o sette volte. Ricordo che prendevano in prestito dalla biblioteca anche fiabe cinesi e fiabe dei nativi americani, e io letteralmente mi perdevo in queste storie. Penso che abbiano avuto un grande impatto sulla mia scrittura: ne utilizzo la struttura, molte cose accadono il modo ripetitivo anche nelle mie storie, e ci sono cattivi e aiutanti. Non voglio scrivere prosa di realismo sociale: c’è della magia nel mondo, e nelle mie storie voglio mostrare questa magia.
I dettagli della vita quotidiana sono cruciali nei suoi romanzi: il sole, l’asfalto bagnato, un paio di guanti… Come interagiscono tra loro le emozioni umane e gli oggetti?
Gli oggetti concreti sono l’unico modo per far provare qualcosa ai lettori. Se scrivessi «amore, amore, amore» nessuno proverebbe tale sentimento. Se scrivo invece che Ronja spende i pochi soldi che ha per comprare dei guanti alla sorella maggiore Melissa, le cui mani sono state fredde per tutto il romanzo, spero che il lettore riesca a percepire il suo amore. Se scrivessi «gentilezza degli estranei» nessuno proverebbe nulla. Se scrivo che il vicino di Ronja va a scuola a vedere la recita perché sa che il padre della bambina è ubriaco, spero che il lettore possa percepire la gentilezza di quel vicino. Questo accade perché tutti noi, nell’esistenza reale, viviamo il mondo come una cosa concreta, è solo in un secondo momento che interpretiamo.
La vita è crudele, la vita è bella, la vita è semplicemente indifferente. Come influiscono le nostre interpretazioni sulle storie personali?
Totalmente, credo. E la cosa più interessante nello scrivere questo libro è stato mostrare come Melissa veda la situazione in modo diverso da Ronja. Ronja è portatrice di speranze e di sogni, Melissa di realtà e bollette.
I sogni aiutano o mettono in pericolo la vita delle persone?
Entrambe le cose. Sognare, fantasticare possono essere tanto una benedizione quanto un fardello. Soprattutto per i bambini: sanno immaginare che tutto sia perfetto, ma anche che ci sono mostri dietro le tende e ladri fuori dalla porta. Per persone come Ronja, che crescono con un genitore che continua a mentire – cosa che tutti gli alcolisti fanno – l’immaginazione può diventare un problema. Alcuni bambini cresciuti in questo modo, molto semplicemente non riescono a capire cosa sia reale o meno, perché vengono continuamente ingannati, e la loro immaginazione inizia a colmare i vuoti della storia del genitore. I bambini non hanno modo di sapere cosa sia vero se gli adulti mentono loro. Questo è ciò che accade nel mio libro: Ronja perde il contatto con ciò che è reale e ciò che non lo è.
Tra tutti i lavori che ha fatto il padre di Ronja, l’unico che a lei non andava che facesse era «il poeta»…
Ronja desidera che suo padre abbia un lavoro «normale», come tutti gli altri genitori, non vuole che si distingua, cosa che già fa a causa della sua dipendenza. Essere uno scrittore o un poeta ti fa spiccare – lo so per esperienza. La gente tende a pensare che tu abbia un impiego davvero «strano». E in un certo senso ha ragione: trascorro la giornata a evocare mondi che non esistono nella realtà. Ma mi sento fortunata a nel poter fare davvero questo per lavoro.
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