Un’inedita flânerie per le vie dell’anima
Itinerari critici «Le città del mondo», di Eraldo Affinati, per Gramma/Feltrinelli. Topografia sentimentale e letteraria di trecento centri del mondo, tra conosciuti, sognati e inventati. Un itinerario che si apre a New York per chiudersi a Gerusalemme, alimentato dal desiderio di conoscere prima di tutto se stessi come dalla necessità dell’incontro con l’«altro». Uno sguardo che a più riprese si alimenta anche della memoria narrativa, come le tracce lasciate dagli Stati Uniti raccontati da Mario Soldati fin dagli anni Trenta
Itinerari critici «Le città del mondo», di Eraldo Affinati, per Gramma/Feltrinelli. Topografia sentimentale e letteraria di trecento centri del mondo, tra conosciuti, sognati e inventati. Un itinerario che si apre a New York per chiudersi a Gerusalemme, alimentato dal desiderio di conoscere prima di tutto se stessi come dalla necessità dell’incontro con l’«altro». Uno sguardo che a più riprese si alimenta anche della memoria narrativa, come le tracce lasciate dagli Stati Uniti raccontati da Mario Soldati fin dagli anni Trenta
Nelle pagine dei Passages, l’opera incompiuta alla quale Walter Benjamin aveva lavorato a lungo, ma che sarà ritrovata solo decenni dopo la sua morte e pubblicata a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso – l’ultima edizione per Einaudi è del 2010 -, l’intellettuale ebreo-tedesco guardava alla metropoli parigina come al «volto di sogno del XIX secolo», considerando, inoltre, che «ogni architettura collettiva (dell’epoca) rappresenta la casa della collettività sognante». Al centro di questo orizzonte, Benjamin poneva poi la figura del flâneur, ripreso da Baudelaire che a metà dell’Ottocento riteneva che solo bighellonando per la città, trasformandosi, per dirla con le sue parole, in «un botanico del marciapiede», si potessero cogliere fino in fondo sia lo spirito del luogo che quello dei tempi. Dal canto suo, Benjamin, avrebbe fatto un testimone privilegiato dell’epoca moderna, delle trasformazioni sociali che avevano investito la città, raccogliendo lui stesso in prima persona, nel corso delle sue lunghe passeggiate senza meta nel cuore di Parigi, ogni sorta di dettagli e spunti sugli uomini e le cose, la vita e le sue difficoltà, le sofferenze come le speranze.
L’ITINERARIO che Eraldo Affinati compone nel suo Le città del mondo (Gramma/Feltrinelli, pp. 300, euro 19), può evocare il percorso di Benjamin alla scoperta di quel «luogo» del moderno che è stata la Parigi fin de siècle, ma a patto che la ricerca si coniughi lungo l’incerta linea di faglia dell’incontro, della conoscenza di sé come dell’«altro», dove il viaggio assume le sembianze dell’introspezione e di uno sguardo rivolto all’anima, delle cose come degli uomini. La topografia sentimentale e letteraria di trecento città del mondo che lo scrittore romano propone, si snoda non a caso tra realtà conosciute, sognate e inventate. Mettendo in scena un repertorio narrativo che, accanto a Benjamin può rimandare, quanto a invenzione letteraria, a Le città invisibili di Italo Calvino, ma che sembra anche riassumere i diversi canoni lungo i quali si è snodata fin qui l’opera dello stesso Affinati, alternando l’impegno e la testimonianza civile alla pura invenzione romanzesca.
Perciò, l’orizzonte delle città che l’autore ha conosciuto, alle quali ha guardato con curiosità non soltanto intellettuale o quelle che nel contesto del volume gli servono da spunto per riflettere, non solo sul presente, traccia complessivamente una geografia del cuore che è allo stesso tempo un’indagine sul mondo in cui viviamo e sulla capacità di raccontarlo. «Una volta se volevi conoscere/ i mercati parigini leggevi Émile Zola – scrive Affinati in uno degli interventi in versi che fanno a più riprese da contrappunto alla «visione» delle città -, oggi ti basta andare in Rete/ per avere tutte le informazioni/ dice: non è la stessa cosa/ certo, ma se noi giudicassimo la qualità della visione/ e di tutto il resto/ coi classici criteri ermeneutici/ forma, densità, contenuto/ spessori semantici/ come ci insegnarono all’università/ facoltà di lettere moderne/ gli studiosi che poi rinnegarono/ le loro stesse teorie/ rischieremmo di non capirci più niente».
Il riferimento è ai «walking tour», creati da «ragazzetti svegli» che impugnando una telecamera portatile passeggiano per una grande città per poi postare i video su You Tube. E «se questi giri in apparenza oziosi (…) fossero la risposta operativa/ che le nuove tecnologie ci consentono/ alla perdita dell’aura insita nell’oggetto unico/ sentenziata da Walter Benjamin/ nel lontano 1936?».
L’INEDITA FLÂNERIE che Affinati sembra proporre ne Le città del mondo non si esaurisce dunque in un colto divertissement, per quanto questo romanzo anomalo nei toni del memoir sia non solo affascinante, ma a tratti anche divertente e giocoso, ma verrebbe da dire che conduce il lettore proprio alla ricerca di quell’«aura» perduta, nel cuore stesso di alcune delle domande che caratterizzano il nostro mondo. Quell’esperienza letteraria a parte intera che si sviluppa pagina dopo pagina conduce ad alcuni dei nodi inestricabili del presente, di fronte a quesiti cui non è possibile sottrarsi.
Ancora una volta non a caso, Affinati muove da New York, nel prologo del libro, per giungere, nel suo epilogo, a Gerusalemme. Una delle forme più evidenti e plastiche della costruzione dell’identità del contemporaneo, da un lato, la città di pietra di tutte le tradizioni dall’altro: questo a prima vista, ma d’altro canto, anche due volti dell’irriducibile pluralità dell’esistente e della lotta senza fine per conservarne, a dispetto della violenza e dell’odio, proprio tale caratteristica. La New York che Affinati descrive, un mese dopo l’attentato dell’11 settembre, appare come un luogo e, se possibile, come una sorta di archetipo. «Questa è la madre di tutte le città del moderne, dico a me stesso – sottolinea lo scrittore -, oppure la figlia scapestrata di quelle antiche, in stile babilonese, secondo l’immagine che ne diede Ennio Flaiano, coi suoi blocchi neri e grigi di ferraglia e mattonati, simili a profili sospesi, moduli sgranati dal New Jersey all’East River, nello sfasciume di ponti e neon pubblicitari, finestre allineate in mezzo al groviglio di cemento armato, fra nuove vetrate e vecchie ringhiere, pareti cieche e prati sintetici sui terrazzi scorticati, grattacieli austeri e superbi come marziali sentinelle schierate in ordine sparso davanti all’Oceano Atlantico».
A PIÙ RIPRESE lo sguardo di Affinati si alimenta anche grazie alla memoria letteraria, consapevole di interrogare la caducità dello sforzo che l’uomo compie per comprendere e tradurre nella pagina scritta lo spettacolo del reale cui assiste: in questo caso le tracce lasciate dagli Stati Uniti raccontati da Mario Soldati fin dagli anni Trenta, come in America primo amore (Sellerio, 2003). «“Chi mi ridarà il sole e il vento di Manhattan, i felici mezzodì di quei sabati?”, si chiedeva mesto il giovane Soldati, ben sapendo che la città da lui vissuta quand’era solo un ragazzo si sarebbe irrimediabilmente dissolta».
La metropoli dell’immaginario globale, osservata all’indomani della ferita più cruenta che ha subito in epoca contemporanea, appare altrettanto fragile e mesta, a fronte della sua magnificenza conclamata. Non stupisce che Affinati annoti così nel suo «diario»: «Ho l’impressione che New York, come una gigantesca guglia sprofondata negli abissi di cui noi vediamo soltanto le affioranti alberature, guidi cieca la loro trionfale marcia verso il nulla». Per quanto paradossale possa apparire in questo momento, l’epilogo dell’itinerario compiuto da Affinati suona invece per molti versi rassicurante. Nel senso che di fronte a Gerusalemme, per quanto segnata dalla guerra, l’autore segnala come sia «difficile trovare un’altra città, al tempo stesso conosciuta, sognata e inventata: gli intrecci fra lingue e persone, terre e religioni, vi risultano inestricabili».
EMERGONO, in conclusione, una serie di quesiti che accompagnano l’identità plurale della città considerata santa dai tre maggiori monoteismi nati sulle sponde del Mediterraneo, ma che, a ben guardare, accompagnano la natura stessa di ogni centro che per sua stessa natura veda convergere storie e percorsi differenti. Quesiti che, nuovamente, riguardano la consapevolezza di sé e la capacità dell’incontro con l’«altro», vale a dire la messa in opera dell’arte di procedere alla scoperta, come è proprio dell’incedere del flâneur.
Ma, nello spazio che lega, e al tempo stesso separa, New York da Gerusalemme, Eraldo Affinati ha avuto modo di farci incontrare, attraverso i suoi occhi ma soprattutto i suoi sentimenti, la Charkiv, testimone della guerra russa all’Ucraina, la Venezia segnata dal «dolore della bellezza», ma anche la città nata fallita di Infobox o Canale, che si chiama così anche se non ci sono più corsi d’acqua, l’Antiochia dei viaggi perduti di Arbasino o, ancora La Mecca «che ho sognato ascoltando la sura di Ibrahim recitata a due passi da mio tavolo di lavoro nella sede romana della scuola Penny Wirton», che lo scrittore ha fondato insieme alla moglie, Anna Luce Lenzi, per insegnare l’italiano ai migranti. Il volto delle città, siano esse conosciute, sognate o inventate, è sempre per Affinati quello di qualcuno da guardare negli occhi.
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