Oggi le incisioni rupestri della Valcamonica, in provincia di Brescia, fanno parte del Patrimonio Unesco dell’Umanità. Risalgono all’Epipaleolitico, le più antiche ad almeno ottomila anni prima di Cristo. Circa duemila le rocce scolpite sparse in più di 180 località, divenute meta turistica ogni anno di decine di migliaia di visitatori, con più parchi attrezzati per accoglierli.
Le incisioni sono chiamate Pitòti, nei dialetti del luogo: pupazzi, ometti, burattini, raffiguranti scene di culto, di caccia, di guerra, di vita quotidiana. Segni rituali di devozione nei confronti delle divinità, appartenenti ad antichissime popolazioni alle origini della cosiddetta civiltà camuna.

Queste tracce sono state oggetto di molte attenzioni non sempre disinteressate. Negli anni Trenta le SS naziste, attraverso la Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe (l’Associazione per la ricerca dell’eredità ancestrale tedesca), istituita da Heinrich Himmler, se ne interessarono inviando nei siti più di una spedizione allo scopo di riscontrare anche in Valcamonica la presenza di una razza ariana preistorica stanziatasi in Europa e formata da popoli dal comune ceppo indo-germanico, con i Pitòti come possibile ancestrale matrice del linguaggio runico. A interpretare le iscrizioni rupestri arrivò dalla Germania, tra il 1935 e il 1937, anche Franz Altheim, prestigioso storico del mondo antico, che, per inciso, in anni successivi, coltivò stretti rapporti con Julius Evola, che ne introdusse le opere in Italia, facendolo collaborare alle pagine culturali di alcuni quotidiani fascisti.

CON QUESTE PREMESSE in Una breve estate lontano dalla polvere di Tita Prestini (Barta, pp. 203, euro 14) viene ambientata una storia nell’agosto del 1942, in piena guerra, quando un giovanissimo vice commissario della Questura di Verona è inviato in un piccolo paese della Valcamonica a indagare sulla scomparsa di una bella archeologa, studiosa di petroglifi preistorici, con entrature altolocate nel Minculpop, il cui passaporto era stato ritrovato in circostanze a dir poco singolari: nello stomaco di un orso.
«Trovare le rune tra i Pitòti» – dirà nel racconto il Podestà del paese – «potrebbe essere il primo passo per dimostrare che forse anche Roma è stata fondata da un popolo di origine ariana». Si tratta dunque di un romanzo giallo tra archeologia e uso ideologico della storia, non banale e scontato.

Nel corso della permanenza del vice commissario Fabio Settembrini, il personaggio inventato da Prestini, già protagonista di altre storie (nel 2019 con La doppia morte della compagna Sangalli ha vinto il premio Microeditoria di qualità), in questa comunità di poche centinaia di anime, occupata di fatto da un reparto nazista impegnato in ricerche minerarie volte all’estrazione dell’uranio per scopi bellici, emergeranno alla fine più delitti, la corruzione dei vertici fascisti locali, ma anche la figura di un prete impegnato a far fuggire oltre confine famiglie di perseguitati ebrei e l’opposizione al regime di alcuni vecchi socialisti.

UN MICROCOSMO di montagna, «lontano dalla polvere» delle città, dove aleggiano i presagi della sconfitta nella guerra condotta a fianco del Reich, tra storie personali, relazione amorose, odi e gelosie.
Tita Prestini, giornalista, conoscitore dei territori in cui si svolge il racconto, con una scrittura semplice e ricca di descrizioni, usa la trama di un giallo per affrontare temi anche difficili come la follia della guerra e l’antisemitismo, tenendo sempre alta l’attenzione del lettore. Merita.