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Un’indagine per l’ispettore Poirot

Riforma Rai

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 marzo 2015

Per dirla con Poirot, c’è proprio da spremere la materia grigia per capire perché il premier Renzi abbia voluto insistere su una riforma della Rai apparentemente così continuista e modesta.
Infatti, dopo annunci e rulli di tamburi lo spettacolo non arriverebbe neppure a due pallini dei critici. Non parliamo dei costituzionalisti, tesi invano a ricordare che spetta al Parlamento e non già al governo occuparsi del servizio pubblico. Ci riferiamo più semplicemente ai commenti seguiti alle prime enunciazioni, ora ribadite e confermate. Si rintracci qualche recensione davvero positiva, persino nelle fonti editoriali ormai assai benevole e tolleranti verso il presidente-segretario. In verità, ecco il mistero, l’articolato dibattuto nel consiglio dei ministri è assai prossimo alla vituperata legge Gasparri del 2004, ripresa da Testo unico delle radiodiffusioni l’anno seguente.
Il consiglio di amministrazione passa da nove a sette componenti (rivoluzione?), di cui quattro espressi da Camera e Senato – quale Senato, tra l’altro? – con buona pace del tormentone «fuori i partiti». Questi ultimi rimangono saldissimi sulla tolda di comando, mentre la new entry è proprio l’esecutivo, che sceglie il super-amministratore delegato.
Per carità di patria non si contrabbandi come una svolta la presenza della piccola vedetta dei lavoratori: mi faccia il piacere, per ricordare il grande Totò. Altro sarebbe stato se si fosse con coraggio promossa un’idea diversa di «pubblico», fondata sulla compartecipazione azionaria dei dipendenti. Ma il «socialismo» è probabilmente un incubo nell’immaginario dell’attuale compagine di Palazzo Chigi.
Quindi, niente di nuovo sul fronte occidentale? Ecco, qui sta l’enigma da risolvere. L’unica cosa che potrebbe, forse, rendere attendibile il «botto» lungamente annunciato è l’identikit del capo-azienda. Che magari è bello e scritto da qualche parte, con l’unica esigenza di dare un sostegno normativo. Vale a dire, proviamo a indovinare, si vuole passare da un servizio pubblico (certamente pieno di limiti e di contraddizioni) ad una società solo formalmente statale: di fatto privata. E di cui una parte (RaiWay docet) potrebbe proprio essere messa in vendita. Non ora, ovviamente. Sarebbe politically uncorrect. E persino le sinistre del Partito democratico protesterebbero. Prima o poi accadrà, quando meno te lo aspetti….
Fantasie? Magari. Allora, però, qualcuno spieghi ai comuni mortali di che realmente si tratta. Visto che nessuno si immaginava una cover della legge di oggi, brandita da Renzi come una minaccia, se il parlamento tergiversasse e, utilmente, volesse intraprendere l’iter della discussione sulla base dei progetti depositati. Grosso modo tutti migliori di quello strombazzato dal governo. Uno dei tre cardini «riformatori»: anche il canone e il rinnovo della Convenzione Stato-Rai sono in agenda. Tuttavia, non si capisce come la parte possa sostituirsi al tutto, se quest’ultimo è ciò che si è capito. Pure la sineddoche ha un’anima. Tra l’altro: in quale bolletta dovrebbe finire il canone, visto che lo stesso Renzi sostiene non piacergli?
Un altro indizio, per citare sempre l’ispettore Poirot? Il canone è sgradevole, la pubblicità in crisi. E quindi? E la Convenzione? L’attesa consultazione pubblica pare ferma in uno dei numerosi seminari-convegni di questa stagione. Dopo così lunga gestazione, sarà un altro capolavoro. C’è da scommetterci. Speriamo di sbagliarci.

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