Era già strano di per sé: un narratore di neanche trent’anni, ma con un’opera seconda vincitrice di premi di rilievo, che dopo il romanzo successivo si ritira nel silenzio. Eppure, dipendenti come si è oggi da quel duplice attestato di esistenza che è la pubblicazione – di un libro, e di se stessi sui social -, non dobbiamo essere stati in molti a chiederci che fine avesse fatto Vincenzo Latronico dopo il 2013. Finché, un paio d’anni fa, non uscì Le perfezioni (Bompiani), un omaggio al Perec de Le cose in cui si narra di una coppia di giovani «expat» a Berlino, dove la vita digitale si estende a spese di quella materiale con analoghe pretese di realtà e alla fine del quale si ha la diagnosi del loro disincanto: l’«abbondanza» che avevano trovato all’arrivo nella capitale tedesca non ha retto il peso del tempo, poiché «risultava da un’intersezione specifica fra la storia della città e quella della loro vita».

OGGI SAPPIAMO che all’autore è accaduta una cosa simile: Latronico ne scrive ne La chiave di Berlino (Einaudi, pp. 152, euro 17,50), un libro che si colloca nella linea di un saggismo autobiografico sempre meno autofittizio e sempre più praticato anche dai più giovani ove, in mancanza d’inventiva ulteriore, ritengano la propria esperienza interessante (se non esemplare) quanto basta da metterne a parte chi legge. Se poi il testo in questione si smarca dai prodotti più effimeri di questo genere, non è solo per le doti di scrittura che a Latronico erano riconosciute fin dagli esordi, ma anche per la presenza di quel marcatore di senso che indica una vita interiore, un evolversi e maturare attraverso l’osservazione del mondo e di sé in esso.

A partire, in questo caso, dal venticinquesimo anno d’età: è allora che Latronico arriva a Berlino, una città in cui c’è posto per tutti, perché il suo tratto dominante è il «vuoto», l’immenso spazio di possibilità rappresentato dall’ex-aeroporto di Tempelhof. Lui ci arriva da Milano, sfuggendo alla «determinazione» di una scelta di carriera che gli avrebbe «impedito di crescere» e con un’idea di vita e libertà che «somigliava al futuro»: è la sua linea d’ombra, oltre la quale tutto è «potenziale» e «generosità di vita».

Pur senza sentirsi erede di alcunché, cosciente però di esser lì in cerca di se stesso, quasi Berlino non fosse altro che la superficie proiettiva di una sperimentazione identitaria, Latronico rinviene la specificità storica della metropoli, si appella a Isherwood e Franz Hessel cercando parentele al proprio vissuto, scorge nel Landwehrkanal il percorso sinuoso dei propri ricordi, osserva ciò che di conformistico e apolitico c’è nel proprio stile di vita a «Kreuzkölln» e lo decostruisce. Quindi sposta l’infinito delle possibilità nella sospensione temporale dei rave party, anche qui tuttavia smascherandone l’«utopia individualista» e giungendo infine a riconoscersi fra i «tiepidi», quelli che non si sono mai abbandonati fino in fondo alla perdizione.

È POI IL MONDO DELL’ARTE contemporanea, che Latronico ha frequentato per sostentarsi, quello dove la disillusione si fa strada con più insidia: da zattera per tutti, nel giro di pochi anni espelle gli ibridi e i temporeggiatori per farsi astronave in cui può decollare solo chi ha una «strategia», cioè un piano di monetizzazione. Ma il vero, amaro risveglio avverrà dopo la pandemia, con la ricerca più che ardua di un nuovo domicilio: si può allora realizzare di essere stati, per anni, in balia di una storia e del suo marketing. Peccato sia la stessa mitografia cui si è contribuito con le proprie scelte di vita – ed è pure impossibile smettere.