È il primo pomeriggio dell’8 giugno 1972. Nick Út, quasi ventunenne, sta riponendo le sue macchine fotografiche per tornare a Saigon. Gli attacchi per quel giorno sembrano finiti. Kim Phúc ha nove anni. Da tre giorni è rifugiata con la famiglia al tempio Cao Dài di Trang Bàng nel sud del Vietnam. Lì non bombarderanno di sicuro, pensano gli adulti del villaggio. Il Cao Dài è imponente, coloratissimo, con i dragoni attorcigliati alle colonne. I bambini hanno finito di mangiare e inseguono i corvi che sono entrati nel tempio. Kim gioca con Danh, il cugino preferito di tre anni, ignorando che sarà l’ultima volta. Gli uccelli nella pagoda, che ricorda vividamente, si dice siano di cattivo auspicio. Un soldato all’improvviso grida: «Via via, andate via. Via tutti i bambini!». L’aereo dell’aviazione sudvietnamita ha sganciato i fumogeni segnalatori per l’imminente bombardamento. Lì, proprio lì.

«SIAMO CORSI TUTTI FUORI, sulla Route 1. Ho guardato e l’aereo era sopra di me, così veloce e vicino che mi sentivo paralizzata. Non riuscivo a correre. Ho girato la testa e ho visto sganciare quattro bombe nere che non sono esplose con il solito fragore. Hanno fatto boing boing boing e sono precipitate lentamente, fluttuando». Kim, la più vicina, è attorniata dal fuoco. Per un momento spariscono tutti i soldati, i fratelli, i cugini, la nonna, ingoiati dalla nube vischiosa del Napalm, una polvere che brucia a 3000 gradi. I vestiti si sciolgono, la pelle è a brandelli, il fuoco entra sino alle ossa.

La bambina è nuda e corre, corre con le braccia larghe. Fa caldo, troppo caldo. «I miei pensieri in quel momento sono stati ‘Oh mio Dio, sto bruciando, non sarò mai più normale. Sarò diversa, brutta’». E, mentre tutti scappano esausti, Nick Ùt è lì e fotografa. «Nong quà Nong quà, brucia brucia», urla la bambina. Un soldato le dà da bere. Nick istintivamente le rovescia addosso dell’acqua che, a contatto con le ustioni da Napalm, peggiora la situazione provocandole uno svenimento.

KIM PHÚC e Nick Út – la Napalm Girl e il vincitore del premio Pulitzer 1973 per lo scatto più famoso e intenso della guerra in Vietnam – sono entrambi a Milano per l’inaugurazione della prima antologica italiana di Út, From Hell to Hollywood, al Palazzo della Regione Lombardia. I curatori, Ly thi Thanh Thao e Sergio Mandelli, hanno scelto, in occasione del cinquantenario dell’evento, 61 straordinarie fotografie: dal Vietnam in b/n, ai colori di Hollywood con i suoi chiassosi paradossi. Ma Nick Út non è solo un fotoreporter, è una leggenda. Quel giorno è lui a salvare Kim e i fratelli.

Nella concitazione del momento, abbandona le sue macchine fotografiche, corre a prendere il furgone e carica tutti, tra urla e lacrime. «Se non lo avessi fatto, mi sarei suicidato», dice.
L’ospedale però non vuole accettare Kim, è troppo grave. «Se non la ricoverate – minaccia mostrando il tesserino della Associated Press – domani sarete su tutti i quotidiani del mondo». Per quattordici mesi the girl in the picture verrà curata in vari ospedali, con dedizione e affetto, tra dolori strazianti che non la lasceranno mai del tutto. Quali sogni avrebbe potuto coltivare una bambina di nove anni precipitata in una storia così cruenta e tanto più grande di lei?

TORNATA A CASA, la madre le mostra la foto. «Nuda, agonizzante, senza speranza. Perché lo hanno fatto, come si permettono?». Kim odia quell’immagine, odia la bambina che corre, le cicatrici e la pelle increspata come il rilievo di una carta geografica. Non è più una ragazza normale. Le amiche la temono e le stanno alla larga. È sola e il Napalm continua a bruciare dentro. Riprende la scuola e poi s’iscrive alla facoltà di medicina: «Volevo aiutare gli altri così come sono era accaduto a me, grazie ai dottori».

Ma i funzionari del governo la vanno a scovare in università. «Sei un simbolo vivente, Kim, il tuo paese ha bisogno di te», le dicono. La obbligano a partecipare a convegni e cerimonie, le fanno perdere le lezioni e manipolano le sue parole. Ogni suo movimento è controllato dal regime. È disperata. Anche Cuba, dove riesce a trasferirsi alla facoltà di letteratura inglese, le riserva lo stesso trattamento. Un giorno, alla mensa, a dispetto di tutte le profezie che la volevano single, incontra Toan, un nordvietnamita. I due s’innamorano, non hanno un soldo ma, al rientro dalla luna di miele in Messico, fanno scalo a Terranova, e decidono di fermarsi in Canada defezionando.

OGGI KIM HA UNA CALMA sovrannaturale, il volto di porcellana, occhi e sorriso dolcissimi. «Vedi – dice – mi hanno data per morta. Invece la mia vita ha avuto inizio da una foto e da un bombardamento. Io non sono più quella povera bambina. Pensavo di non avere diritto ad essere amata, invece sono madre, moglie, nonna, amica». Sulla schiena è impresso il passato: il segno della tragedia. Sul volto, morbido e accogliente, invece c’è uno sguardo scintillante aperto al futuro. Il suo corpo è l’evidenza carnale dei due lati di guerra e pace. Se le si parla dell’Ucraina le si inumidiscono gli occhi, «Perché dobbiamo farlo di nuovo?» si chiede, mentre sente la pelle delle vittime bruciare.

Kim ha subito 17 interventi chirurgici e ha ancora bisogno di cure. Ha dedicato la vita alla ricostruzione di se stessa e della pace, come sopravvissuta alle atrocità, come ambasciatrice Unesco e come presidente della Kim Foundation International per aiutare le vittime infantili dei conflitti con supporti psicologici, medici e ortopedici.
Nell’immagine, che rivoluzionò la percezione della guerra, i bambini ci corrono incontro dal buio del passato con le bocche spalancate in una smorfia di dolore come manga giapponesi. È uno scatto metafisico che divora il presente, un avvertimento, una bomba che continua a esplodere nelle minacce dei potenti.

QUESTA FOTO – pubblicata sulle prime pagine di tutte le testate del mondo – fu considerata un fake da Nixon. Ma si impresse nelle coscienze dei giovani che avevano cantato con Joan Baez We Shell Overcome e in quelle dei generali con i cimiteri appuntati sul petto. Fece il giro del mondo e divenne pop, segno degli anni ’70 e del dolore della «Macelleria Vietnam». Qui, gli americani utilizzarono quattordici milioni di tonnellate di bombe e distrussero le foreste con l’Orange Agent, il defogliante irrorato per stanare i vietcong.

Ebbene, quell’immagine cambiò il corso della storia, contribuì a fare finire i massacri, ma non le successive morti per diossina e mine inesplose. Kim e Nick si ritrovarono da adulti, consapevoli della forza emotiva, sociale e artistica dell’immagine. Lei, visceralmente contro la guerra, parla oggi sommessamente al mondo del suo rapporto con Dio e del perdono come l’arma più potente. «Ho scelto di benedire e non di maledire le persone che mi hanno fatto del male, il liquido nero dell’oscurità andava squarciato».

NICK ÚT, dal canto suo, è diventato uno dei fotografi più famosi del pianeta. Entrò alla Associated Press a sedici anni, prendendo il posto del fratello Huynh Thanh My ucciso in battaglia nel 1965. Poco prima di morire Huynh espresse un desiderio: «Spero che la fotografia un giorno fermi la guerra». L’8 giugno 1972, quando il reporter portò Kim all’ospedale, disse tra sé e sé: «Huynh, oggi ho una foto per te!».