Cultura

Un’iconografia del tempo

Un’iconografia del tempoNeo Preistoria, allestimento della mostra di Andrea Branzi e Kenya Hara – Foto di Gianluca Di Ioia

Mostre Cento verbi permettono un viaggio attraverso i secoli alla Triennale di Milano: è questa la «Neo Preistoria» di Andrea Branzi e Kenya Hara, visitabile fino al 12 settembre

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 20 aprile 2016

Se qualcuno immagina che la XXI/ma edizione della Triennale abbia una continuità con le precedenti, dovrà intenderla solo nel significato del ritorno – lodevole – di un’importante esposizione internazionale. La sua lunga storia dedicata al design, un tempo «arti decorative», inizia nel 1923, alla Villa Reale a Monza, e prosegue poi nel 1933 a Milano sino al 2004.
Si può essere dunque soddisfatti che sia riproposta una manifestazione così illustre pur riconoscendo che questa riedizione si distinguerà dalle precedenti principalmente per le sue dimensioni, ossia per il numero delle mostre ed eventi che interessano altri spazi della città e per l’esteso coinvolgimento d’istituzioni pubbliche e private, non certo per quella «missione eminentemente provocatoria» che, come scrisse Agnoldomenico Pica nella sua Storia della Triennale, fu sempre la prerogativa delle Triennali anche dopo il 1957, l’anno al quale si ferma il racconto dell’architetto e critico padovano.

Il «compito documentario», infatti, non costituì mai la sua «unicità» che riguardava piuttosto la presenza «di idee e di proposte, di speranze e di suggestioni, ma – soprattutto – di anticipazioni, persino, di progetti non ancora giunti a essere attuali». Ora è pur vero che la crisi della modernità ci ha messi davanti a situazioni di ardua soluzione nel generale disordine geopolitico che causa guerre e distruzioni, ma non per questo ci si deve arrendere all’impossibilità di ricercare e promuovere azioni e progetti – magari sotto il «segno dello scandalo» – ancora sostenuti dai valori di umanità e razionalità.

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© Gianluca Di Ioia

La tesi della mostra centrale al Palazzo dell’Arte di Andrea Branzi e Kenya Hara dal titolo Neo Preistoria (visitabile fino al 12 settembre) esprime in modo sintomatico questa «visione del mondo» in difficoltà nel comprendere il tempo presente, ma soprattutto incapace di configurare una qualche possibile risposta al disagio – o dannazione – in cui si è caduti per l’eccesso di cinismo, avidità ed egoismo. In uno spazio buio, contornato da specchi, disseminato di grandi dolmen in vetroresina, il percorso espositivo si snoda tra cento oggetti posti su dei basamenti e teche in forma di stele che identificano le ere dell’uomo e i cento verbi ai quali il loro uso rimanda.

Così s’inizia con il verbo «esistere» che ha il suo riferimento in una piccola pietra non lavorata e si finisce con il verbo «rigenerare» che rimanda alla visualizzazione di un cuore umano ricostruito attraverso il tessuto vivente. Dalla pietra lavorata dal primo uomo, per essere solo afferrata, e poi essere perfezionata per rompere, colpire, schiacciare, levigare o trafiggere e uccidere, sono trascorsi migliaia di anni. Il cammino della civiltà umana dalla preistoria alla «Neo Preistoria» è segnato dalla tecnica sempre più avanzata e pervasiva e in mostra questo percorso ci appare cortissimo e circolare. L’«invenzione tecnologica», alla quale almeno da Morris e Ruskin il design contribuisce, poiché è destinata ad essere svalutata non esistendo «prodotti eterni», assume qui un diverso significato che esula dall’oggetto in sé.
La singolare analogia con il passato – in special modo quello più remoto, primitivo – consiste nell’incertezza che si ha nei confronti del futuro.

«Mancano le chiavi di comprensione – scrive Branzi in catalogo – e la violenza convive (e a volte coincide) con i miracoli della scienza» e così «l’incertezza, le paure, l’energia vitale della preistoria, tornano a segnare il nostro cammino, verso un futuro provvisorio». Si può discutere a lungo sulla tesi che i problemi attuali siano irrisolvibili e che ci si trovi davanti a enigmi per i quali gli strumenti della modernità sono ormai superati. Come si può dialogare con una «nuova antropologia» composta di sette miliardi di persone? Per rispondere a questa domanda non si può che riflettere sul ruolo del design oggi, inteso nell’accezione ampia di tutto ciò che riguarda il progetto; il quale ha subito profonde trasformazioni che ne hanno messi in discussione statuti e codici anche se molti designer e architetti presenti nelle altre mostre della Triennale sembrano ignorarlo. Ci si domanda, però, se pur «accettando il caos» rinunciando al «razionalismo ottimista» che appartenne allo scorso secolo, si possa mai essere soddisfatti e dichiararsi «realisti», come fanno i due curatori, non perché seriamente rinuncino a qualsiasi tentativo di immaginare un futuro ma solo per marcare le loro differenze dal progetto moderno.

D’altronde sappiamo, non essere facile fare i conti con la complessità del presente. La questione si sposta sul come il progetto, nel design e nell’architettura, nei modi e nelle forme con cui lo conosciamo, possa contribuire a elaborare teorie e pratiche idonee a contrastare le disuguaglianze e squilibri sociali del mondo. Hara immagina di trovarsi «nuovamente in un’oscurità crepuscolare», ma pur vedendo l’«ansia nel cuore degli esseri umani», per lui il progetto non crea e comunica contro qualcosa. In un’intervista al The Japan Times ha dichiarato: «il ruolo del design non è determinato o antagonista ma è qualcosa di molto più grande, più lento e più strutturale. In una parola, deve inventare ciò che le persone desiderano».

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Per comprendere il desiderio Hara con Branzi guardano al passato, quello più remoto. Ora occorrerebbe spiegare se la storia possa ridursi all’utilità immediata per giustificare uno «stile», se si possa osservare astraendola dal contesto religioso, tecnico, ideologico per comprendere meglio i «desideri dell’umanità» come fa il designer giapponese quando si riferisce alla fine del periodo Muromachi (1392-1573) per fondare la sua personale estetica progettuale.

In questa direzione il «Design after Design», titolo di questa XXI edizione della Triennale, non propone che sotto altre spoglie ciò che s’intende superare ripresentando un luogo comune della modernità. S’impone ancora una volta la concezione astorica della forma, sempre oggettiva, ubiquitaria ed estetizzata, ma soprattutto internazionalizzata come Hara, direttore di Muji, ha saputo dimostrare. Tutto ciò che ormai appare «un problema irrisolvibile» nella Metropoli Multietnica (titolo della seconda mostra curata da Branzi) sembra così risolversi nella soddisfazione dei desideri (i più atavici) e nell’impartire l’educazione (la più inclusiva) a quell’«arcipelago di etnie» che ci circonda e il cui destino è di «dissolversi», con le loro culture, nel «nuovo agglomerato mondiale». All’interno di questo rimangono sempre aperte le questioni su ciò che ancora può legittimare il design.

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