Alias

Ungheria-Inghilterra, settant’anni dalla partita del secolo

Ungheria-Inghilterra, settant’anni dalla partita del secolo25-11- 1953: il capitano dell’Inghilterra Billy Wright (a sinistra) e Alf Ramsey, osservano ansiosi il portiere Gil Merrick mentre fronteggia un attacco ungherese durante la partita in cui l’Inghilterra fu battuta per 6 a 3 (Photo by Dennis Oulds/Hulton Archive/Getty Images)

Sport Alle ore 16.45 del 25 novembre 1953, Inghilterra e Ungheria scesero sul regale prato di Wembley...

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 25 novembre 2023

In Il secolo breve, lo storico Eric Hobsbawm scrive che il football è stato il dono che la Gran Bretagna ha fatto alla cultura popolare mondiale. Se le cannoniere e i commerci di ogni tipo consentirono di fondare ed espandere l’impero britannico, la diffusione del calcio ai quattro angoli del globo assecondò e fortificò il processo. Il declino iniziò dopo la Seconda guerra mondiale, nel clima della Guerra fredda e dell’impetuosa de-colonizzazione. Nell’autunno 1956, si registrò il definitivo tramonto del potere imperiale: Londra cedette al diktat congiunto di Washington e Mosca e si ritirò dal Canale di Suez, che aveva occupato insieme a francesi e israeliani dopo la nazionalizzazione disposta dal presidente egiziano Nasser.

Tre anni prima, il primato dell’isola era stato simbolicamente demolito a Wembley, quando la nazionale ungherese aveva inflitto un umiliante 6-3 ai tronfi maestri del calcio. Fu la prima sconfitta interna della nazionale dei Tre Leoni, o come scrisse l’autorevole The Times, la prima violazione del «saldo suolo inglese da parte di un invasore straniero».

Non si trattò di un fulmine a ciel sereno, per quanto gli inglesi attendessero con la consueta superbia il ben presto battezzato «match del secolo», euforici per la recente conquista dell’Everest da parte di Edmund Hillary e la concomitante incoronazione di Elisabetta II. Dall’altra parte infatti si ergeva la fenomenale Aranycsapat, la «squadra d’oro» del tecnico Gusztáv Sebes, in serie positiva da trentatré partite e orgoglio di un popolo che si trovava in una situazione ben diversa. L’Ungheria aveva sofferto l’occupazione della Wehrmacht, collaborando assai con i nazisti, e poi quella dell’Armata Rossa, che si era conclusa con la completa stalinizzazione del paese sotto la guida di Mátyás Rákosi.

Persino il più oppressivo dei regimi anela a una sorta di legittimazione popolare e, come accaduto in Unione Sovietica e nelle altre Repubbliche popolari, il governo di Rákosi allungò i propri tentacoli sullo sport e in particolare sul calcio. I leader comunisti ricercarono l’associazione con la formidabile generazione di Puskás, Hidegkuti e Kocsis, al fine di beneficiare dell’adorazione che il pubblico riservava ai calciatori.

Il calcio si prestava allo scopo per una serie di motivi: in quegli anni cupi, mancavano altre forme di svago e intrattenimento; andare allo stadio era uno dei pochi modi per assaporare brandelli di libera espressione del pensiero e delle emozioni; il calcio era una delle poche vie di ascensione sociale, dato che ai campioni era concesso un più alto tenore di vita, benché dovessero sempre comportarsi come impeccabili modelli di fedeltà politica e fossero perciò soggetti all’occhiuta sorveglianza della polizia segreta.

Questa sorta di convergenza di intenti fra l’alto e il basso fece del calcio un’ideale strumento di propaganda. Dopo l’oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, gli uomini di Sebes conobbero un periodo di ineguagliato fulgore, che il partito non tardò ad attribuire all’efficienza delle azioni di governo e alla generale supremazia del socialismo sul liberalismo capitalista. Il resoconto giornalistico delle ripetute vittorie ottemperava anche allo scopo di avvicinare all’ideologia dominante quella parte di opinione pubblica apolitica, neutrale o addirittura ostile. Per la stampa di regime passava inoltre l’incessante accostamento fra i fuoriclasse degli stadi e i «maestri del lavoro», ossia gli operai che il governo esaltava per i loro straordinari contributi (sovente del tutto inventati) al conseguimento dei traguardi di produzione fissati dai pianificatori economici. Dopo la vittoria di Londra, i minatori di Balinka si offrirono di raddoppiare le quantità di carbone estratto e il noto stakanovista József Igaz lanciò i turni di lavoro «6-3», durante i quali prometteva di eccedere i già irrealistici obiettivi produttivi, incoraggiando tutti i lavoratori a fare altrettanto per mostrarsi degni della nazionale di calcio.

Ovviamente il governo sfruttò i successi calcistici anche per accrescere la propria reputazione internazionale. Prima della prestigiosa amichevole in Inghilterra, Aranycsapat fu di scena a Roma per l’inaugurazione dell’Olimpico e l’ambasciata ungherese colse l’occasione per organizzare un lauto ricevimento, al quale parteciparono oltre 200 invitati, incluso il presidente del Coni Giulio Onesti. Gli Azzurri subirono «un rovescio catastrofico» per una rete di Hidegkuti e una doppietta di Puskás, il quale rivolse poi un appello al popolo ungherese per invitarlo a «votare bene» alle imminenti elezioni generali. Dopo la gara, Sebes e i giocatori visitarono il segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio e, come dimostrato da un fotografia comparsa sulla prima pagina de l’Unità il 20 maggio 1953, incontrarono i dirigenti del PCI Pietro Secchia e Giancarlo Pajetta, i quali «brindarono ai successi della nazionale magiara nei campi della pace, del progresso e del socialismo».

Infine, alle ore 16.45 del 25 novembre 1953, Inghilterra e Ungheria scesero sul regale prato di Wembley. I padroni di casa sghignazzarono per gli insoliti scarponcini indossati dagli avversari e per gli inequivocabili segni di adipe sotto la maglietta di Ferenc Puskás, salvo incassare la prima rete di Hidegkuti dopo meno di un minuto. Alla mezz’ora, gli ospiti si issarono sul 4-1, per arrivare a sei quando non erano ancora scoccati i due terzi di gara. Fino al novantesimo, fecero mera accademia.
Come riportato dal cronista del Guardian, i magiari si erano dimostrati inarrivabili per velocità, controllo di palla e acume tattico. La posizione arretrata del centravanti Hidegkuti, primo falso nueve della storia del gioco, mandò in confusione l’intera retroguardia britannica, mentre la fitta rete di passaggi brevi, l’inedita interscambiabilità dei ruoli e i continui movimenti negli spazi vuoti costituirono un rompicapo irrisolvibile per il sorpassato tecnico inglese Walter Winterbottom.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento