D’accordo, l’Euro Song Contest è quello che è, una mega fiera del kitsch per famiglie. D’accordo, ispirarsi alla cantante più premiata e famosa del mondo (Beyoncé) è una tentazione comune a tante sue colleghe. D’accordo, dopo oltre un anno di astinenza e un’edizione saltata si può capire la voglia di far festa con montagne di lustrini. D’accordo, molte artiste hanno sdoganato l’orgoglio per le forme procaci e non saremo noi a eccepire. Concesse tutte queste attenuanti, la appena conclusa edizione del festival, che ho visto in differita per poter abusare della straordinaria funzione “salta e vai avanti veloce” (doppia freccia a destra), mi ha lasciato molto incredula per come la rappresentazione del corpo femminile è intesa a certe latitudini. Per dirla in due parole, la frattura estetica, e quindi anche culturale, fra i vari Paesi faceva impressione.

BREVE ELENCO delle mise in concorso. Il copricostume tempestato di strass e fili d’argento della cipriota Elena Tsangrinou. La tutina color carne con oblò sul sedere e corsetto trasparente incrostato di pietre della croata Albina. La tenuta sadomaso con lustrini e giarrettiera di Efendi e ballerine al seguito, Azerbaijan. Il mini abito argentato con frange e mega cuissard in tinta della maltese Destiny che, considerata la sua opulenza, più che sfinare allargava, e questo in tivù non aiuta. L’imbarazzante, per bruttezza, e superaderente tuta viola tipo “Son tutta uno strass” con oblò su schiena e pancia, per non farsi mancare nulla, della greca Stefania. L’abitino corto corto e ammiccante pure lui di frange argentate sui fianchi (una vera mania!) della bionda e moldava Natalia Gordienko che, essendo indecisa se guardare allo stile Monroe, Miley Cyrus, Lady Gaga o a Raffaella Carrà li ha mescolati un po’ tutti. Il body armato di pietre e fili argentati (eh sì, ci toccano di nuovo) corredato da calze contenitive lucide e color carne, roba da incriminare lo stilista per omicidio volontario del buon gusto, dell’albanese Anxhela Peristeri. Infine, e non a caso, le tre serbe di Hurricaine, ovviamente una bionda, una mora e una rossa, che si sono presentate in calzamaglia a rete ricoperta da tutina in pelle con opportuni squarci su cosce, fianchi, pancia e schiena, disseminata di borchie e strass nei punti strategici, il tutto completato da chiome così lunghe e mosse da potentissimi ventilatori che facevano pensare più a uno spot tricologico che a una gara canora.

VA BENE voler farsi notare a tutti i costi, ma qui o si sono tutte fatte vestire dallo stesso sarto (e chiedo scusa ai sarti veri) o siamo di fronte a un immaginario femminile monodirezionale e molto macho man, tutto curve esibite e ammiccamenti più da night club con lap dance che da concorso vocale. C’è seriamente da chiedersi chi ha voluto trasformare queste cantanti in pitonesse da palcoscenico. In confronto, il bustier nero di tulle della francese Pravi , oltre a riposare gli occhi, sembrava una roba da educanda e la rappresentazione plastica di quanto l’Europa possa essere schizofrenica anche su come si guarda alle donne e le donne vedono se stesse. Comunque, per canzone, ironia e inventiva dell’abito, le mie preferite sono state due. La cantante ucraina degli Shum che sembrava la nipote di Attila per via delle piume verdi sulle braccia e quella voce sciamanica. La russa Manhiza che, uscita da una gigantesca matrioska, è rimasta in tuta rossa, molto simile alla “Varst” che Alexander Rodchenko e la moglie Stepanova disegnarono per i proletari rivoluzionari nel 1923. Viva la rivoluzione.

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