Non si esibiva in Italia da undici anni, precisamente dal concerto tenutosi a Cava dei Tirreni, insieme all’indimenticato Pino Daniele. Una lunga attesa, di mezzo una pandemia, e un covid che ha colpito e bloccato Clapton, lo scorso maggio, proprio prima delle tappe italiane. Ma scavalchiamo l’ordine e andiamo per sentimento. Ve la ricordate la scena di Carlo Verdone su un terrazzo romano nel film Manuale d’amore 2 quando chiama una radio per descrivere l’incontro e il momento del ritorno all’amore atteso per tanto tempo, e quando alla fatidica domanda «ne è valsa la pena?» lui si allontana dal telefono e urla per farsi sentire dalla città intera: «Ne è valsa la pena, né è valsa veramente la pena». Ecco, la premessa è questa: tutta questa attesa ne è valsa la pena. L’Unipol Arena accoglie i fan di Clapton sin dalla mattina, e la fila pur essendo carica non è mai scomposta. La gente è un misto di età, dai settantenni ai bambini piccoli, portati forse per il primo concerto della loro vita, che sarà nel futuro, un privilegio da ricordare.

GIÀ DAL MOMENTO in cui arriva sul palco, uno dei chitarristi più geniali e originali ovvero Robben Ford, che ha accompagnato in passato Miles Davis, Bob Dylan, George Harrison e che per un’ora intrattiene il pubblico con maestria e proponendo brani di altissimo spessore musicale del suo repertorio, fino ad omaggiare John Lennon eseguendo una Jealous Guy da brividi veri. Così sono le 21.00 e quel momento atteso è arrivato. Clapton arriva sul palco per primo, accolto da un boato, accompagnato dalla sua band che vede come sempre Nathan East al basso, alle tastiere un iperbolico Chris Stainton e un magistrale Paul Carrack, alla batteria Sonny Emory, ai cori Sharon White e Katie Kissoon e alla chitarra Doyle Bramhall II. Il pubblico di Bologna ha mostrato quanta gratitudine c’è verso Clapton, un uomo che ha nella chitarra la sua ragione di vita e non solo, perché la sua unicità non è saper suonare bene ma è come la suona e cosa trasmettono quelle mani, quegli occhi chiusi, quel sorriso smorzato dai suoi musicisti. E la scaletta è tanta, si parte con Tearing us apart, Key to the Highway, Hoochie coochie man, River of tears, I shot the sheriff per poi passare al set acustico con Country Boy (di Muddy Waters), After Midnight, Nobody Knows you, Layla, Tears in Heaven regalando una chicca al pubblico, perché l’esecuzione cambia ad un certo punto omaggiando A white shade of pale dei Procol Harum. E poi si riprende con Badge, Wonderful tonight, The sky is crying, Cocaine e per il finale High time we went. Sul palco c’è anche un particolare e prezioso ricordo: una delle chitarre, ovvero la Gibson che Clapton suona è un regalo di J.J. Cale. Nemmeno Clapton si aspettava tanto amore da questa serata, le sue parole e i suoi gesti sono state cariche di emozione, lui che loquace non lo è mai stato: «Vi state divertendo perché io mi sto divertendo, non so nemmeno quello che faccio ma mi sto divertendo» e si pronuncia anche sul finale di Layla, «sembrava ancora più dolce perché la folla la canta insieme a me».

LA SECONDA serata ha solo due novità in scaletta. Eric ripropone Honey Bee di Muddy Waters e regala la presenza di Robben Ford con lui sul palco, per un’esibizione trascendentale di High time we went. È stata un’esplosione, non uno, non due, ma mille infarti, come direbbe Verdone.