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Un’esistenza per sonnambuli

Un’esistenza per sonnambuli

Festivalfilosofia Pubblichiamo un estratto dalla «lectio magistralis» che la filosofa terrà a Carpi domenica, in piazza dei Martiri alle ore 18

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 14 settembre 2019

Come potremmo descrivere oggi il mondo del capitalismo avanzato? Non come un «palazzo di cristallo», né come un labirinto di passages, le due famose metafore proposte da Dostoevskij e Benjamin. L’immagine è piuttosto quella di un centro commerciale planetario, aperto non-stop, operativo secondo il ritmo inarrestabile del 24/7. L’esterno è stato risucchiato all’interno.

Tutto è costantemente rischiarato da una narcosi di luce, dove il giorno aspira a diventare permanente. Saltano i limiti: non solo tra esterno e interno, ma anche tra luce e buio, attività e riposo, sonno e veglia. Nella lunga notte del capitale, illuminata a giorno permanente, nessuna pausa è ammessa. L’ambiente artificiale intensamente illuminato favorisce un sonnambulismo di massa.

La volta è senza astri, senza punti di orientamento. Perché le stelle, se anche ci fossero, non sarebbero più visibili, occultate dall’alta intensità del bagliore che si confonde con i miasmi dell’inquinamento. Sotto quel cielo vuoto opera alacremente il supermarket planetario che consente una varietà infinita di offerte, ma che non ammette la possibilità di un oltre.

ALTEZZA E PROFONDITÀ sembrano perdute. Il supermarket planetario si estende orizzontalmente, integrando tutto al suo interno, in una piattezza disarmante, che smentisce ogni «fuori».
Ho chiamato «immanenza satura» il regime di un globo senza finestre, quello del capitalismo in stato avanzato. L’immanenza va intesa nel senso etimologico di ciò che permane in sé, sempre dentro, senza fuori, senza esteriorità. La saturazione è spazio-temporale.

Il che potrebbe sorprendere. Non è forse questo il mondo dei flussi assoluti, del capitale, della tecnica, dei media? Non è il mondo dell’accelerazione? Certo. Ma a ben guardare la vorticosa economia del tempo descrive le medesime orbite. La rapidità precipita nella stasi, l’accelerazione finisce nell’inerzia. Il sigillo del globo sincronizzato è il cambiamento inerziale.

Il mondo dell’immanenza satura è quello che ha preteso di immunizzarsi da tutto ciò che è fuori e di scongiurare ogni alterazione. Questo mondo del tardocapitalismo è quello della catastrofe ecologica imminente, di cui troppo spesso si dimentica la responsabilità: l’incandescente sovranità del capitale. Così è ormai più facile figurarsi la fine del mondo che immaginarsi la fine del capitalismo. Il mondo dell’immanenza satura è quello del regime capitalistico-globale dove si oscilla tra il non-evento del fluire liberaldemocratico e l’imminente collasso planetario.

Qui domina una exofobia, una paura abissale, un freddo panico per ciò che è esterno, per ciò che è oltre e altro. Si resta all’interno, accettando una chiusura spaziale che è anche una prigione temporale. Mancanza di sensibilità, privazione di memoria, riduzione delle facoltà percettive, impossibilità di riflessione caratterizzano il sonnambulismo di massa.

Quali sono gli effetti di questa exofobia sull’esistenza? Che cosa vuol dire abitare nell’immanenza satura del supermarket planetario?

Qui non si tratta tanto della questione etica che riguarda l’estromissione dell’altro, quanto piuttosto della questione psicopolitica che investe il sé. Che ne è del sé incapace di protendersi fuori, pronto a condividere tutte le immagini exofobiche? Quelle che lo spingono a paventare perdita di forza di gravità, perdita di identità locale, perdita di luogo e di posto di lavoro, per via di una «invasione» annunciata dall’esterno, di un predominio degli stranieri, di un’invisibile minaccia diffusa ovunque?

L’exofobia si traduce in una riduzione dell’altro che, considerato come uno spettro nello spazio esterno, non è più il coabitante, reale o potenziale, della sfera comune. Al contrario diventa il rappresentante spettrale di tutto ciò che viene da fuori, che costituisce un’emergenza continua, un pericolo incombente. Di qui la tentazione del sé di essere sempre più stanziale e iperprotetto chiudendosi in una polizia preventiva.

SCONTATO è il ripiegamento sul proprio ego, in un egoismo divenuto ormai extra-morale, fomentato dal modello dell’incorporazione dettata dal consumo. L’ego del consumatore sovrano, la cui esistenza si misura in potere d’acquisto, la cui libertà si condensa nella scelta fra prodotti diversi, è insieme l’ego dell’elettore sovrano il cui amor proprio è sempre meno l’amore di sé, sempre più l’amore del proprio e della proprietà.

Si intuiscono gli effetti psicopolitici esercitati dal regime dell’immanenza satura. Ciò vale tanto più nell’epoca della sovranità sbandierata, del sovranismo rivendicato dagli Stati, ma anche – non si deve dimenticarlo – dai soggetti. Il sé che si vuole sovrano è paradossalmente quello più assoggettato e soggiogato dalla psicopolitica neoliberista.

Questo sé egoico è andato inesorabilmente sprofondando in se stesso. Mentre esistere significa emergere da sé, protendersi fuori, il suo esistere è diventato uno sconsolato in-sistere, che grava sul proprio centro. Così, si è caparbiamente fuso in se stesso, senza trovare più il varco verso l’oltre.
Il presunto soggetto sovrano ha finito per soccombere alla exofobia contemporanea proiettando il negativo all’esterno, in una visione torva e minacciosa, accettata supinamente. Come se tutto dovesse per forza restare all’interno nel segno dell’immunizzazione.

SU QUESTO SÉ CHIUSO, ripiegato in sé, e solidale solo con se stesso, viene perpetrata una repressione subdola, una pressione distruttiva, che si manifesta come depressione. Con ciò non si deve intendere un disturbo di cui alcuni soffrirebbero, bensì la patologia stessa del mondo senza fuori. La depressione dovrebbe essere intesa non solo e non tanto come avvilimento, ma anche come impossibilità di innalzarsi, e certo anche come incattivimento, cioè quel rendersi captivus, prigioniero.

Questo sé depresso e sonnambulo che, impassibile, ha visto altri naufragare davanti ai propri occhi, è naufragato in se stesso. D’altronde nel mondo dell’indifferenza postimmunitaria, della voracità bulimica, della pienezza di sé, non può esserci ospitalità. Perché l’ospitalità è interruzione del sé. Qui però i calcoli non hanno funzionato: non si è previsto che la negazione dell’altro sarebbe stata anche autonegazione. Così si è messa in moto una spirale di autodistruttività.

Abitare è un sinonimo di esistere, nel senso di stare al mondo. Purché il mondo non venga considerato un container. È questo, appunto, il caso del supermarket planetario, un universo sempre più inabitabile.

Il regime dell’immanenza satura è il globo attraversato e percorso da reti digitali dove è eliminata ogni estraneità, in cui il sé, chiuso nell’alveo dei flussi, che non ammettono interruzione, ha smarrito l’eccentricità, l’uscita dal proprio centro ed è spaesato come mai.

La risposta non sta però in una iperimmunizzazione reazionaria che idolatra il luogo, che sacralizza la casa, che inneggia alla patria etnica. Il sé che pretende di non poter esistere se non nel luogo dove mette i piedi, di cui immagina di avere la proprietà, e perciò la facoltà di escludere gli altri, è quel sé che è già annegato.
Rendere il mondo abitabile vuol dire opporre alla exofobia una exofilia, un’amicizia per l’esterno, anche e proprio là dove sembra essere più estraneo, dove intimorisce e spaventa. La polizia preventiva del sé che pretenderebbe di essere stanziale e iperprotetto porta al naufragio. Solo la traumatica leva dell’altro può far uscire dalla narcosi dello stordimento.

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