Un’esistenza a circuito chiuso
Intervista Parla Hou Hanru che, insieme a Luigia Lonardelli, cura la mostra al Maxxi «Please Come Back. Il mondo come prigione?». Gli artisti interrogano il mondo della videosorveglianza totale
Intervista Parla Hou Hanru che, insieme a Luigia Lonardelli, cura la mostra al Maxxi «Please Come Back. Il mondo come prigione?». Gli artisti interrogano il mondo della videosorveglianza totale
La reclusione come condizione esistenziale, «luogo» fisico e psichico da cui poter interrogare la realtà, senza essere visti. È questo il senso della mostra che aprirà al Maxxi di Roma il prossimo 9 febbraio, chiamando a raccolta ventisei artisti che, coraggiosamente, rispondono a un titolo dai contorni «liquidi»: Please Come Back. Il mondo come prigione? La rassegna, a cura di Hou Hanru con Luigia Lonardelli (fino al 21 maggio, cinquanta le opere), insiste sul carcere come metafora e allarga la visione al campo della videosorveglianza, dei circuiti chiusi e delle politiche di controllo della Rete e dei suoi algoritmi. Ad affrontare la sfida, ci sono artisti da sempre impegnati a scandagliare le pieghe del sociale, come Harun Farocki, Gianfranco Baruchello, Elisabetta Benassi, Rä di Martino, Rossella Biscotti, Carlos Garaicoa, o ancora Mohamed Bourouissa, H. H. Lim e Lin Yilin, fra gli altri. A guidarci nel percorso sarà Hou Hanru, direttore artistico del Maxxi, oltre che co-timoniere di questa mostra.
Perché è stato scelto come elemento simbolo il carcere e non – per esempio – i confini o l’idea di enclave che si sta sviluppando nelle nostre società, non solo occidentali?
Quando sono arrivato in Italia, la discussione pubblica girava intorno alla necessità o meno di mandare in prigione alcuni politici. Il carcere era ed è ancora un soggetto interessante. Rivela le contraddizioni della politica e della società; da un lato è una limitazione, una punizione per i criminali, ma dall’altro può essere anche un luogo speciale di creazione. È un fronte invisibile della lotta per la libertà. «Dietro il muro» c’è un campo intenso, dinamico, che ispira un’altra maniera di immaginare il mondo. In Italia, molti intellettuali e attivisti hanno prodotto opere di pensiero rivoluzionario in prigione, come Gramsci o la contraddittoria generazione delle Brigate Rosse. Oggi il carcere è un luogo complesso: qui l’organizzazione sociale si riflette in modo eccessivo. In prigione precipitano tutti problemi della società. Il detenuto spesso è povero, nero e immigrato. Gli artisti possono produrre una riflessione critica.
Cominciamo con dei muri, ma dobbiamo ragionare anche sulla nuova realtà. La direzione che ha preso è quella di un’espansione della limitazione di libertà, pur se lo fa in suo nome. Viviamo in un mondo controllato da video e Internet. Promuovendo questo genere di mostre, al Maxxi intendiamo sviluppare l’interazione tra istituzione e società.
La prigione si è materializzata in forme architettoniche e spaziali, trasformandosi nel tempo dal panopticon al drone. L’idea di globalizzazione è entrata in crisi. Non è in forte contrasto con l’idea di chiusura e angoscia cui stiamo assistendo (anche dopo l’elezione di Trump in America)?
È una situazione che nasce dalla globalizzazione stessa: se da una parte si dà la possibilità di immaginare un tipo di libertà assoluta – dialogo, viaggi, scambi – dall’altro, viene prodotta una grande divisione sociale. Ha evidenziato diversi modelli di vita, non facili per tutti: i nomadi, i migranti e gli stanziali, chi resta nel luogo in cui è nato. La differenza di possibilità nell’approfittare della globalizzazione dal punto di vista sociale, economico, politico ha innescato conflitti tra le persone e le comunità, generati anche da una varietà di pensiero, valori e immaginazione stessa del mondo.
Siamo in un’epoca in cui questa complessità è diventata la normalità della vita quotidiana, che per alcuni non è più sopportabile. È uno dei problemi centrali del nostro tempo, ma la chiusura non è una soluzione. Non possiamo più sbattere la porta, ma dobbiamo riformulare le relazioni tra le comunità per trovare un equilibrio: un nuovo contratto sociale su scala mondiale.
C’è chi sostiene che i social network e la Rete siano una forma di controllo, forse la più rigida di tutte. Cosa risponde?
La rete permette di ripensare la strategia della libertà. È vero: il controllo esiste, ed è più presente che mai nella storia, ma c’è anche la possibilità di eluderlo attraverso l’uso dei suoi stessi strumenti. È una lotta onnipresente, pur se invisibile.
«Please Come Back» è il titolo dell’opera del collettivo Claire Fontaine, scelta come piattaforma da cui far partire il discorso artistico-sociale…
È un’opera impressionante, che cattura lo sguardo, ma anche molto ricca di significato, data la complessità del suo messaggio. Può essere interpretato come un claim della libertà, eppure riesce anche a generare una sensazione di vuoto, di incertezza. L’opera possiede un significato specifico legato alla prigione come spazio di detenzione e controllo. Per noi, rappresentava un modo per aprire la discussione.
Ci può illustrare il criterio con cui è stato scelto il percorso dell’esposizione?
La mostra è divisa in tre sezioni: Dietro le mura, dedicata alla prigione in senso fisico, poi Fuori dalle mura ci dimostra che la lotta per la libertà avviene in uno spazio più grande (quello della città); infine, Oltre i muri ci invita a proseguire al di là dei confini dei nostri stessi paesi per cogliere due cose quasi invisibili: il cielo e Internet, due spazi oggi controllati dal potere.
Come si può rendere comunicabile un itinerario della paura e del controllo declinato dagli artisti in un museo? Non rischia di essere troppo «patinato», di rovesciare la carica eversiva delle opere, una volta messe tutte insieme?
Qui non si tratta di comunicare la paura, ma di spiegare che quella condizione può essere usata in senso creativo, essere una risorsa di energia rivoluzionaria.
La battaglia non è solo una questione di forza fisica, ma anche intellettuale. C’è un aspetto molto importante che è la tensione tra la paura e la ribellione contro il terrore. In questo contesto, l’espressione estetica è una forma di libertà. Non credo che il nostro progetto serva a denunciare la paura; piuttosto, dovrà mostrare la possibilità di uscire da una dimensione psicologica e superarla.
Può raccontarci il lavoro di Lin Yilin?
Lin Yilin è un artista cinese che vive tra il suo paese e New York. Ha riflettuto molto sulla condizione della città, immaginandola come un campo in cui creare zone di libertà attraverso azioni e performance. In mostra, ci sono due suoi lavori nati da una osservazione interessante che fece nel 2007/2008. Si trovava in una città nel sud della Cina quando vide un ladro che, arrestato dalla polizia, veniva condotto in carcere con la forza, costretto a camminare con le mani ammanettate ai piedi. L’artista trovò la scena incredibile. Il ladro non poteva scappare, ma nemmeno camminare.
Yilin osservava i passanti per la strada, era sorpreso perché nessuno sembrava reagire. Così, ha deciso di fare una performance coinvolgendo un’altra persona perché a lui quelle manette non entravano! Questa persona ha camminato nella stessa città per circa un chilometro, incatenato. È stata la prima tappa. Poi, nel 2009, l’ho invitato alla Biennale di Lione e mi ha chiesto di ripetere l’azione a Parigi, sugli Champs-Élysées per registrare le reazioni della gente. Ha camminato, per quasi un’ora, senza che nessuno intervenisse. Si è fermato all’Arco di Trionfo. La sua è un’opera che mostra la contraddizione totale della filosofia e della politica del controllo. Nel cuore di una grande città, tra l’altro in un periodo di terrorismo e controllo globale, tu fai un’azione così e non succede nulla.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento