Cultura

Un’epoca-mondo, movimenti e rapporti di forza e potere

Un’epoca-mondo, movimenti e rapporti di forza e potereRoma, Valle Giulia, marzo 1968 / foto Getty Images

SCAFFALE «Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia», di Luigi Manconi e Gaetano Lettieri per il Saggiatore

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 luglio 2023

Dove nasce certa brutalità repressiva dei corpi di polizia – al netto della scorciatoia liquidatoria delle «poche mele marce» – usata nelle piazze, nelle carceri, nelle caserme e nei centri per migranti? Perché l’attuale ordine sociale si fonda sulla minaccia della violenza, quella monopolista del potere democratico ma anche quella delle «avanguardie rivoluzionarie» o dei movimenti insurrezionalisti? Perché nella cultura politica, anche delle più avanzate battaglie di libertà e giustizia, non ha mai attecchito la pratica della nonviolenza? Come mai l’Europa bunker si allarga sempre più ma senza mai raccogliere la lezione di Aldo Capitini, di cui sembra rimanere traccia solo nella Marcia Perugia-Assisi? Può esistere un «tirocinio non democratico alla democrazia»?

SONO ALCUNI degli interrogativi su cui dibattono il sociologo Luigi Manconi, presidente dell’associazione «A Buon Diritto», e il docente di Storia del cristianesimo e della Chiesa Gaetano Lettieri nel saggio Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia edito da Il Saggiatore (pp. 198, euro 19). Nella prima parte del libro, Manconi analizza la peggiore eredità del Sessantotto – movimento che aspirava a trasformare radicalmente il sistema di potere e che pure tanto ha dato alla parità dei generi e alla liberazione dalle convenzioni –: la violenza «fratricida» che contrapponeva, secondo l’ex presidente della Commissione diritti umani del Senato, i giovani schierati da due parti opposte della barricata, i primi a contestare, i secondi a reprimere.
Con un punto di vista sghembo, l’ex studente dell’Università cattolica di Milano si fa testimone di un ’68 «minore», incarnato da ribelli nonviolenti rimasti nell’ombra, come l’operaia che colora le pasticche dell’azienda farmaceutica o gli agenti che chiedono consiglio ai militanti nel primo tentativo di dare vita ad un sindacato di polizia.

MANCONI, che nel ’68 aveva vent’anni, ci conduce attraverso un percorso che dalla poesia «Il Pci ai giovani!!» (provocazione massima e forse mai totalmente compresa con cui Pier Paolo Pasolini si cala nei panni del poliziotto sottoproletario che si scontra con gli studenti di Valle Giulia), si dipana attraverso le opere di Saba, Petri, Giordana e altri per mettere a fuoco quella «violenza fratricida» che, secondo il sociologo all’epoca militante di Lotta continua, si è in qualche modo cristallizzata ed è alla base anche dell’implosione dei movimenti che seguirono il ’68.
Un’epoca-mondo, quella, segnata tra l’altro, scrive Manconi, da «una insuperabile dissociazione tra massima capacità di critica e di cambiamento, e minima capacità/possibilità di ribaltare i rapporti di forza e di potere». E il terrorismo degli anni Settanta fu anche «la manifestazione impotente, criminale e disperata di quella dissociazione». Dalla strage di Piazza Fontana alla morte di Pinelli e all’omicidio del commissario Calabresi il passo è stato troppo breve e la violenza l’ha fatta da padrone. Con il risultato di contribuire a una «rottura non sanabile» tra diversi attori della scena pubblica, tutti però «espressioni della stessa iniquità sociale». Una frattura tale da lasciar pensare che «il conflitto Poliziotto-Sessantotto sia destinato a perpetrarsi». Prospettiva amara addolcita solo da biografie come quella di Adriano Sofri o Sergio D’Elia («Nessuno Tocchi Caino»), inizialmente segnate da spargimenti di sangue e campagne d’odio ma trasformatesi poi in un progetto politico nonviolento che tuttora sollecita il diritto penale ad abbandonare l’ottica della giustizia punitiva in funzione «retributiva», e ricalibrarsi sull’unica prospettiva utile: quella della prevenzione.

NELLA SECONDA PARTE del libro, Gaetano Lettieri (figlio del deputato Dc Nicola, cui toccò la personale tragedia di avvistare per primo nella Renault 4 parcheggiata in via Caetani il corpo del suo amico Aldo Moro, assassinato dalle Br), chiamato da Manconi a dialogare con lui sul tema della «violenza, giustizia, ingiustizia e democrazia», individua come errore principale dei movimenti sessantottini l’«aver scelto una logica politica amico/nemico (patricida, matricida o fratricida che sia) tesa all’affermazione di un nuovo assoluto puro e astrattamente dogmatico» da cui scaturì il concetto di «”violenza giusta”, vendicativa e liberante». Al suo opposto, come Sciascia, Lettieri segnala la pietà umana come ultima virtù politica. Ecco perché, scrive, il rovescio dell’ossimoro poliziotto-Sessantotto «è detenuto-Sessantotto».
In quanto il reo punito da una giustizia vendicativa, focalizzata solo sull’azione passata e non sulla costruzione di una nuova personalità futura, è il prodotto ultimo di una società dissociata, di una democrazia malata. Ma, avvertono gli autori a conclusione del saggio, anche la nonviolenza può diventare indifferente alle ingiustizie e va dunque «decostruita». «Il segreto del politico» democratico radicale, che vuole combattere l’ingiustizia e la violenza sociale, è mettersi sempre nei panni di chi sta in basso, non garantito, spossessato, vittima o prigioniero che sia.

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