Dagli intensi afrori delle dancehall, inerpicate per tratturi segreti tra i campi, e sudate sui corpi seminudi che ballano; o altrimenti, all’ombra dei club disseminati per tutto il Salento, un riverbero di cassa, di grassi bassi; arriva, appena stampato, Dischi Spranti, un Lp di elettronica esemplare, un distillato di ritmi e generi (a cura di Max Nocco e Marco Erroi) che inaugura l’omonima etichetta salentina. Otto brani che spaziano entro ecosistemi elettronici diversi, al chiaro del synth-pop fino alle penombre new wave e a vere e proprie sezioni ctonie, dissonanti, passando per qualcosa di sognante. Stampato a tiratura limitata – c’è tutto un culto oramai per il vinile d’elettronica in quanto oggetto, organismo a sé essudante una sua intrinseca, pervicace bellezza – Dischi Spranti dopo un primo ascolto «allo stato solido», rivela il suo fulgore anche alla prova delle valvole, le 300B, che ad esempio in Dhalsim di Kamaji (esaltante paradiso artificiale: l’incanto dei Plaid fuso alla drum&bass), mostrano come dei gialli spampanati tutt’intorno, fiorenti insieme a degli strani fucsia, a dei suoni verdi fosforici. Ma il viaggio era iniziato con What Game Are We Playing? di Franza, un’house di base, di bassi, che predispone l’ambiente (e la mente), al ballo, cadenzato, lieve. Un’avventura in synth, con avvisaglie pop, che si accentua nella seconda traccia, autore Francesco Fisotti (produttore di grande versatilità): E chi chiamerai? (feat. Done) consegna al disco un ritornello seducente, frutto del rapporto, della sincope, tra il sintetizzatore e la cassa spezzata.

LO SFONDO è quello degli anni Ottanta, tra fumetto, videogioco a 64 kilobyte e cinema: grattacieli in bassa risoluzione tra cui s’involano un uomo ragno a cartone animato e i Ghostbusters. Fantasia e levità, in questo preludio di tre brani, che si completano con Shibui di Queemose, nel cui andamento house si scorgono trine orientali, sottili, evanescenti. Mentre all’improvviso Ra Toth And The Brigante’s Orchestra (dietro cui si scorgono l’ombra in deliquio e l’inventiva straordinaria di Marcello Napoletano) con My Ghetto Acid apre ad acidità, ruvidità, attriti, in una strana eco del tempo che fu, o che non fu mai e piuttosto è ora nell’iperuranio dell’immaginazione. My Ghetto Acid è capolavoro composito, e di composizione, in cui si intrecciano, si intricano un afrobeat alieno (vige la trance di rif elettronici, grassi, e sparuti e forse spauriti laser) e derive freejazz alla base di riti d’iniziazione. Poi Mamanera di Populous, altro capolavoro d’ibridazione: è un post-reggae, una liturgia pagana, meticcia, che evoca la levigazione e la torbida sudorazione di corpi danzanti. Alla fine ecco un dittico che torna alla distensione iniziale, la riformula: Wonderboy dopo l’incedere in elettro-pop, si abbandona a lassi larghi come in new wave, mentre Ylenia di Michele Mininni è progressione d’arrangiamento, rievocazione ritmica e malinconica di un eden sintetico, sempre sognato.