Roberto Gramiccia è un medico, ma pure un critico d’arte (curò una specifica rubrica su Liberazione dal 2000 al 2010), un militante politico e – soprattutto – uno scrittore. Prolifico e mai banale. Da ultimo, ha pubblicato un interessante volume (La notte più buia. Cronache di una generazione, Mimesis, pp. 288, euro 22), che potremmo ascrivere alla categoria mediale dell’autofiction.

Un po’ alla moda, ma spesso birichino nella sua allusività, si tratta di un genere che coniuga la narrazione classica ad un romanzo di formazione intriso di serialità. Scene diverse si intrecciano attraverso la soggettività dell’autore, che si mette in gioco ponendosi senza remore come affabulatore capace di strizzare l’occhio complice a lettrici e lettori: parlo di me, ma parlo di voi. Emana dalle pagine, infatti, un dolce-amaro tratto generazionale.

Un momento essenziale del testo è la crescita giovanile faticosa conquistata tra studi, malanni e amori nelle aule borghesi del liceo ecclesiale De Merode di piazza di Spagna, chissà perché proprio lì; salva poi la redenzione nel mitico collettivo di Medicina della Sapienza, vera e propria fucina del ’68 romano. Gramiccia appartiene ad una lunga e prestigiosa schiera di medici scrittori, che vanta tra le proprie fila Céline, Cechov, Bulgakov, Conan Doyle, Cronin, Levi. Insomma, già un titolo di merito per chi è pure un bravo dottore, dal quale si andrebbe a visita.

IN UNO DEI PASSAGGI si spiega come sia esplosa la passione per le arti, nata quasi per caso e tuttavia a tal punto pervasiva da diventare un leit motiv dell’esistenza. Alcuni nomi del pantheon: Jannis Kounellis ed Ennio Calabria innanzitutto; e, poi, Giulio Turcato, Marco Gastini, Pino Spagnulo, Claudio Abate, Giacinto Cerone, Franco Mulas, Cloti Ricciardi, Renato Mambor, Sergio Lombardo, Cesare Tacchi, Carla Accardi, Nicola Carrino, Nanni Balestrini. E qui siamo al cuore delle scelte profonde dell’autore, attratto in modo quasi spasmodico dal discorso e dalle pratiche culturali. Del resto, Gramiccia, insieme a Diana Cardaci, aveva pubblicato nel 2014 un articolato testo (Arte e potere, ed. Futura), in cui si inoltrava nella complessa dialettica tra sfere spesso contigue ma semanticamente lontane se non avverse.

C’è molto dell’esperienza politica, poi, di una personalità poliedrica e sempre attiva. La sinistra con i suoi limiti traspare nelle pagine come una sorta di voce fuori campo, che ci interpella sulle sconfitte di cui siamo compartecipi. Giustamente, si colloca negli anni novanta del secolo scorso l’incipit della crisi che oggi sta definitivamente degenerando. Il «suicidio assistito» del Pci e la inadeguata riuscita di Rifondazione comunista trovavano allora la propria epifania, sia nella fragilità delle risposte alla crisi del sistema politico con la vicenda «tangentopoli» sia con il ritorno delle guerre in teatri vicini.

Un pezzo delicato e amaro riguarda tre figure importanti per il nostro immaginario come Cesare Pavese, Renato Caccioppoli e Luigi Tenco. Lo scrittore, il matematico, il cantautore decisero di porre fine alla propria esistenza per l’impossibilità – forse – di mantenere intatte le speranze e una volontà positiva. La malinconia che assale Gramiccia e noi con lui riguarda un elemento che congiunge quelle morti a un sentimento diffuso tra coloro che hanno idealità irrisolte: prender parte per i vinti, non per i vincitori. Solo così, probabilmente, si colgono aporie e crudeltà sottese alla routine dominante. Cinica e autoritaria.

IL LIBRO SI CHIUDE con un cenno alla recente pandemia. Ci si domanda come sia possibile che, a fronte delle avanzate conquiste tecnologiche, sia bastato un virus per stravolgere tutti gli equilibri. E già, probabilmente è proprio l’equilibrio dell’ecosistema a non reggere.

Roberto Gramiccia ci regala, insomma, un grumo fertile di sensazioni. Un libro è importante quando induce a pensare e illumina su ciò che non vediamo. Impresa riuscita.