Quello di ridar vita a immagini del passato è un demone che ci accompagna da tempo. Dagli orizzonti rielaborativi, legati al riuso delle immagini nei nostri film, alle pratiche curatoriali, con mostre organizzate in musei e gallerie d’arte, sino, ancora, alle tante immersioni spettatoriali vissute negli archivi o alla frequentazione di festival promossi dalle cineteche, il nostro lavoro è affascinato dal found footage. È quello che nelle esperienze d’insegnamento vediamo brillare negli occhi dei nostri studenti, l’idea di un cinema possibile grazie a frammenti che attingono sia da orizzonti sperimentali che da pratiche amatoriali. Un cinema capace di fare emergere una lotta del senso contro un altro senso, di un senso incerto contro un senso configurato: introducendo, come già fece la psicanalisi alla fine dell’Ottocento, la dimensione poetica e il mistero delle immagini quali forme sfuggenti all’analisi positivista.

Unarchive nasce dalla passione per forme cinematografiche che fanno galoppare la mente. Una tensione che si nutre di immagini quasi mai visibili nelle televisioni: sguardi per cinefili randagi, al buio di una cineteca, nel percorso di una mostra o, sempre più, abbarbicati al web. Un cinema sbandato, poco narrativo, che negli ultimi anni si è incuneato fra media archaeology, nostalgie al nitrato, epocali transizioni al digitale. L’obbiettivo è semplice, forse troppo ambizioso per un festival appena nato. Ribaltare l’immaginario riproduttivo, storicamente associato alle immagini filmiche, soprattutto a quelle documentarie. Un trapasso dalle immagini realistiche verso spazi filmici che fanno sentire con gli occhi, aldilà di qualsiasi boria certificativa o rassicurante fortino dei generi. Dunque formati a flusso libero, che sfuggono a categorie tradizionali mescolando cinema, video, performance, grafica in una attitudine sperimentale che si libera dal rapporto semplicemente testimoniale, o riproduttivo, del reale. È questo panorama multiforme, caleidoscopico, sorprendente che intendiamo proporre al pubblico del festival. Non solo un pubblico di addetti ai lavori, ma spett-autori che continuano a credere e ad amare il cinema nelle sue forme più diverse. Come i tanti studenti invitati ad Unarchive, per il quale il Festival ha avviato convenzioni con vari atenei e accademie di belle arti.

Per questo abbiamo risposto con entusiasmo alla chiamata dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico – che ha promosso il festival grazie all’impegno di un appassionato gruppo di lavoro coordinato da Luca Ricciardi – alla sua storica attenzione al riuso del patrimonio filmico, fonico e fotografico. Si tratta di un impegno pluridecennale, che al tradizionale documentario storico è andato via via accompagnando momenti produttivi e formativi su pratiche più fortemente rielaborative dei propri fondi: con film realizzati da giovani cineasti all’interno del «Premio Cesare Zavattini», o con opere nate all’interno delle residenze di «Suoni e visioni», nello stretto rapporto tra un musicista e un giovane regista. Un panorama ricco di stimoli, esperienze, sfide: da quelle dell’eco-cinema, nel riciclo d’immagini d’archivio, alla convergenza di pratiche tradizionalmente associate all’idea di cinema, da un lato, o di arte visiva, dall’altro; dalla revisione politica d’immagini incagliate nella loro apparente referenzialità sino al coinvolgimento di pubblici assai diversi tra loro.

Ma cosa significa found footage film? È davvero possibile creare un nuovo cinema partendo dai resti del suo passato? Quali legami ci sono con il cinema contemporaneo? E chi sono i protagonisti di un’onda che si sta espandendo all’intero sistema mediale, capace di incidere profondamente sulla cultura visuale del nostro tempo? Sono alcune delle questioni che cerchiamo di affrontare nel Festival, anche attraverso momenti di riflessione in panel dove ospitiamo artisti, cinetecari, teorici della cultura visuale: non tanto per definire sistemazioni generali quanto per tracciare una serie di attraversamenti possibili, tra ibridate memorie filmiche. Letteralmente found footage significa «metraggio trovato», dove metraggio sta per pellicola cinematografica, o parte di essa, e «trovato» indica una vasta gamma di occasioni di recupero, da film emersi per caso – in mercatini delle pulci, raccolte private, inesplorati fondi cinetecari – a film volutamente cercati per essere manipolati. Da un lato immagini provenienti da disparate pratiche audiovisive – cinegiornali governativi, vedute del muto, film d’animazione, sexi cinema, opere hollywoodiane, film sperimentali, pubblicità televisive, documentari industriali… –, dall’altro i modi precipui con cui queste immagini sono rivisitate, sovrapposte, stratificate.

Potenzialmente, come mostra Jean-Luc Godard con le sue Histoire(s) du cinéma, tutto il cinema prodotto sino a ora è manipolabile e oggetto di rinnovate messe in forma. Tutta la storia del cinema è un serbatoio per il found footage, uno sterminato giacimento visivo dal quale partire per (re)inventare processi metaforici, critiche mass-mediali, riflessioni ritimico-figurative.

Si tratta di filamenti della memoria culturale in cui torna il portato emotivo della forma, l’importanza ritmica del montaggio e delle sue correnti energetiche. Il found footage sembra cioè condurre a esperienze psico-sensoriali: e più che rispecchiare il reale, o attivare tradizionali percorsi narrativi, offrirsi quale orizzonte trascendente, in uno straniamento post-brechtiano che ribalta le convenzioni e dissotterra inesplorate attitudini trasgressive. Ammonimenti che resistono sia all’idea di distruzione che a quella di sopravvivenza; e riconfigurano, di volta in volta, di uso in uso, la loro nuvola semantica in un procedere dialettico, senza reti di protezione. Forse perché le immagini, queste immagini, sono diventate più precise? Sembra un paradosso, eppure, sia per la loro mutevolezza, sia per la frequente bassa definizione, le immagini rivisitate sembrano più calibrate ad esprimere il respiro della vita stessa, i modi incerti in cui essa si sviluppa. Forme mutanti, in cui il poetico e il politico paiono molto vicini, in un reale gravido di desiderio e saturo di conflitti.

Anche per questo il programma del Festival ha le fattezze di un mosaico dai tasselli esplosivi. Non solo lungometraggi e cortometraggi, ma un cinema che si espande oltre la sala cinematografica, con installazioni, realtà virtuale, loop audiovisivi e live performance (curate anche con la collaborazione di Giacomo Ravesi). Tutto ciò alla presenza di ospiti internazionali che accompagnano le opere in un aperto dialogo con il pubblico e che animano, insieme ad altri addetti ai lavori, tavole rotonde e masterclass. Le sezioni, competitive e non, volgono lo sguardo principalmente al presente: ma non abbiamo trascurato focus su produzioni del passato, come la selezione di film «ready made» proveniente dalla collezione del Centre Pompidou di Parigi, o l’omaggio alla cineasta canadese Louise Bourque. Vogliamo anche riproporre alcuni film di maestri del cinema – come i recenti lungometraggi di Alexandr Sokurov e Werner Herzog – perché crediamo sia importante rivederli nel contesto di Unarchive e dare la possibilità ad un pubblico non specialistico di poterne godere.

Un viaggio, quello di Unarchive, verso il cinema che maggiormente ci interpella, come spettatori, artisti, studiosi e curiosi; un cinema che fa di una continua ricerca il suo motore, che non cessa di interrogarci ed emozionarci con la sua riflessione sulle mutanti forme del linguaggio audiovisivo. Non un movimento, non una dottrina, ma un vulcano di esperienze in grado di creare opere scintillanti. Per tenere insieme sguardo realistico sul mondo e sguardo sul proprio sguardo, sul modo stesso con cui lo sguardo del cinema continua a costruire gli immaginari del contemporaneo.

* Marco Bertozzi e Alina Marazzi sono i direttori artistici di Unarchive Found Footage Festival