Un’antropologia romanzesca della relazione
SCAFFALE Le uniche due monografie dedicate allo scrittore romano sono firmate da studiosi stranieri: quella di Cornelia Klettke e quella di Philippe Daros, mai tradotta eppure cruciale
SCAFFALE Le uniche due monografie dedicate allo scrittore romano sono firmate da studiosi stranieri: quella di Cornelia Klettke e quella di Philippe Daros, mai tradotta eppure cruciale
La presenza di Daniele Del Giudice nel canone della letteratura italiana contemporanea sembrava acquisita alla fine del secolo scorso: da molti considerato l’erede ideale dell’ultimo Calvino, che aveva fatto in tempo a patrocinarne il primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon (1983), era probabilmente lo scrittore più quotato della sua generazione. Oggi il suo nome è invece quasi assente dal dibattito sul romanzo in Italia; e ha uno spazio limitatissimo nelle ricostruzioni storico-letterarie del più recente passato. Certo pesa, in questa eclissi, il silenzio dovuto a una lunghissima malattia: è vero che iniziative editoriali più recenti, ma filologicamente alquanto discutibili (da Orizzonte mobile, del 2009, alla raccolta dei Racconti, del 2016, per Einaudi), hanno accresciuto il corpus dei suoi scritti, ma l’ultimo libro d’autore è in realtà Mania, del 1997.
Fra i «nipotini di Calvino», alcuni, come Andrea De Carlo, hanno percorso, nel nuovo millennio, strade più facilmente commerciali; altri sono usciti dai riflettori dell’attualità, liquidati più o meno frettolosamente come «postmoderni», o «intellettualistici», o «autoreferenziali» dalle successive mode letterarie – dalla scrittura «cannibale» al troppo spesso sbandierato «ritorno alla realtà», dalla non fiction all’autofiction. Lo scrittore della generazione nata nell’immediato dopoguerra oggi più apprezzato dalla critica italiana è Walter Siti; e non è certo un caso che le uniche due monografie (salvo errore) dedicate a Del Giudice siano firmate da studiosi stranieri: del 2008 è quella di Cornelia Klettke, Attraverso il segno dell’infinito. Il mondo metaforico di Daniele Del Giudice, per Cesati; del 2016, e purtroppo mai tradotta in italiano, quella di Philippe Daros, Fictions de reconnaissances, per i tipi di Hermann.
OGNI DISCORSO su Del Giudice dovrà ripartire dal libro di Daros, che non è solo un attraversamento puntuale dell’opera intera, nel solco della migliore tradizione francese di explication de textes; è anche un saggio teorico, di impostazione filosofica e antropologica, sull’arte del racconto, e sulla sua stessa incerta possibilità, dopo la cesura del secondo Novecento. Il mainstream del romanzo italiano contemporaneo, sia in versione postmoderna, sia in versione «epica» o «realista», ispirandosi per lo più a modelli anglosassoni, ha infatti riproposto il racconto tradizionale, fingendo di ignorare (o ignorando davvero) l’insanabile opposizione fra fiction e écriture, teorizzata dalle avanguardie letterarie e dal dibattito filosofico, soprattutto francese, degli anni Cinquanta-Settanta del Novecento. Invece Del Giudice, con più consapevole ambivalenza, è tornato al racconto, fin dagli anni Ottanta, senza occultare l’abisso incolmabile fra le parole e le cose; ha insomma superato l’esperienza del nouveau roman e della teoria formalista-strutturalista senza percorrere la scorciatoia della rimozione. Ha perciò teorizzato il compromesso difficile di «una narrazione probabile» (non certa), incentrando genialmente il suo primo, bellissimo romanzo sulla vicenda paradossale, e allegoricamente illuminante, di uno scrittore che non ha mai pubblicato, il triestino Bobi Bazlen, e che pure diventa oggetto di una quête tanto appassionante quanto destinata a esiti frustranti.
TUTTA L’OPERA di Del Giudice, nella sua esilità solo apparente, nella sua quasi minimalista linearità diegetica, è metaletteraria: in modo a tratti scoperto (e forse non sempre felice) in Atlante occidentale (1985), in modo più sottile altrove. Come mostra bene Daros, dialoga implicitamente con la grande tradizione letteraria del modernismo (Kafka e Conrad, fra gli altri) e con la filosofia del Novecento (Heidegger, Derrida, Levinas, Ricoeur). Anche quando possono sembrare trasparenti o perfino banali, scelte tematiche e soluzioni narrative rivelano una straordinaria densità concettuale, capace di instaurare una feconda tensione con lo «stile semplice», di fondare un’antropologia romanzesca della relazione, di interrogarsi sui limiti cognitivi della rappresentazione. Non è poco, e dovrebbe bastare per riconoscere a Daniele Del Giudice un ruolo non secondario nella letteratura europea del secondo Novecento.
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