I Greci e i Romani avevano una grande opinione di chi possedeva il dono della sapienza. Non per niente, quella che gli antichi consideravano la massima attività dello spirito umano («la più desiderabile, la più onorevole e la più nobile», per usare le parole che scrive Cicerone nel dialogo sui doveri) era proprio l’amore per la sapienza – quella che i Greci avevano chiamato ‘filosofia’ e che i Romani non avevano avuto il coraggio di tradurre, preferendo trasportarla così com’era nella loro lingua (da dove poi la parola si è diffusa, senza alcuna modifica, in tutte le altre lingue europee).

Per tramandare la sapienza degli antichi, assieme alle opere filosofiche vere e proprie hanno giocato un ruolo importante anche le raccolte delle massime sapienziali dei filosofi stessi: attribuite (quasi sempre a torto, a dire il vero) agli autori stessi, quelle collezioni, di lunghezza variabile, sono riuscite ad attraversare i secoli giungendo intatte fino a noi.

È il caso, per esempio, delle duecento massime di Seneca, i Monita, che ci vengono adesso proposte da Nino Aragno Editore in un elegante volumetto (pp. XXVIII-54, euro 12,00). Scritte e raccolte dal filosofo stoico molto probabilmente alla fine della sua vita, prima del tragico suicidio (come ci spiega il curatore Lucio Coco in una puntuale introduzione), queste sentenze ci portano subito nel cuore della riflessione morale di Seneca, costretto a togliersi la vita per ordine dell’imperatore Nerone, di cui era stato anche, non molti anni prima, il consigliere.

Molte di queste massime riecheggiano affermazioni già presenti nelle sue opere: è il caso della sentenza 86, «Le parole vanno misurate sui fatti e non sulle persone», che troviamo, in una versione più ampia, nelle Lettere a Lucilio, la più famosa delle opere di Seneca ‘morale’ (come lo definì Dante nella Divina commedia), e che ritroviamo anche nella Formula honestae vitae del vescovo ungherese Martino di Braga, vissuto nel VI secolo, un trattato che per tutto il Medioevo (fino a Petrarca compreso) sarà ritenuto, a causa del suo contenuto moralizzante, proprio un’opera di Seneca.

Ma esistono molte altre raccolte che contengono massime attribuite ad altri filosofi antichi (Pitagora, Democrito, Epicuro, Crisippo, tanto per citarne alcuni) nonché a figure di primo piano che, pur non essendo filosofi in senso stretto, hanno lasciato testimonianze della loro sapienza: si va dagli autori di teatro (Epicarmo e Menandro) agli uomini politici (Appio Claudio e Catone) e perfino alle monache (la bizantina Cassia, morta in un’isola del Dodecaneso nella seconda metà del IX secolo) – per non parlare di Plutarco, che ha dedicato alcuni dei suoi opuscoli morali alle sentenze dei re, dei comandanti e degli Spartani (sia uomini che donne), che erano notoriamente molto parchi per quel che riguardava l’uso delle parole.

La lista è molto lunga – e chi volesse percorrerla tutta non avrebbe che da sfogliare il poderoso volume curato da Emanuele Lelli e pubblicato da Bompiani nella prestigiosa collana «Il pensiero occidentale», col titolo Proverbi, sentenze e massime di saggezza in Grecia e a Roma Tutte le raccolte da Pitagora all’Umanesimo (pp. CLXXX-2410, euro 65,00): dentro, ci troviamo più di sessanta opere, tutte col testo originale a fronte e provviste di un dettagliato commento.

Come si comprende dal titolo, quest’opera meritoria contiene anche un altro genere di sapienza: meno elevato, forse, ma molto più diffuso e popolare. Si tratta dei proverbi, che condividono con le massime e le sentenze lo stesso destino, vale a dire quello di aver costituito per secoli un punto di riferimento fondamentale per la cultura occidentale.

Frutto del lavoro di un’agguerrita équipe formata da studiosi giovani e competenti, il libro (che non sarebbe mai nato senza la passione di Lelli, già autore di un bellissimo saggio sul proverbio nella poesia greca) completa un processo che, nella nostra lingua, aveva visto l’uscita, all’inizio degli anni novanta, di un repertorio molto fortunato (mi riferisco al Dizionario delle sentenze latine e greche curato da Renzo Tosi, pubblicato dalla Rizzoli e più volte ristampato).

Aperto da una ricca introduzione che, dopo essersi occupata delle differenze terminologiche, passa in rassegna con estrema lucidità tutta la cultura proverbiale greca e romana, il volume comincia con i misteriosi Precetti di Pitagora (che, per la loro oscurità erano considerati come una sorta di enigmi), procede con gli apoftegmi (una parola difficile che potremmo tradurre con ‘detto’ o ‘motto’) dei Sette sapienti e, passando attraverso tutta la letteratura classica, approda al periodo bizantino, con i Proverbi popolari illustrati di Michele Psello, per finire nella seconda metà del Quattrocento, in pieno Umanesimo, con la voluminosa raccolta (sono 1771) del cretese Michele Apostolio, l’ultimo dei cosiddetti ‘Paremiografi’, un termine che indica gli autori greci ai quali dobbiamo le collezioni antiche di proverbi, pubblicate a metà dell’Ottocento a Gottinga da Ernest Leutsch e Friedrich Schneidewin (Zenobio, Diogeniano, Gregorio di Cipro, Macario e molti altri).
Il panorama offerto dal volume è suggestivo, perché si va da autori molto noti ad altri quasi sconosciuti: accanto ad Aristotele e al suo allievo prediletto Teofrasto troviamo Clearco, che era stato pure lui un suo alunno (e che si era occupato anche di indovinelli e di giochi di parole); accanto alle sentenze attribuite a Varrone troviamo quelle degli eremiti egiziani tradotte dal già ricordato Martino di Braga; accanto al Libro dei Proverbi del ‘venerabile’ Beda, uno dei più grandi sapienti dell’Alto Medioevo, troviamo i proverbi raccolti da Wippone di Borgogna, cappellano dell’imperatore Corrado il Salico, insieme alle undici massime attribuite a San Patrizio, patrono d’Irlanda.

Studiato non solo dalla letteratura e dalla filologia, ma anche da altre discipline come l’antropologia, la storia e la linguistica, il proverbio presenta tre aspetti fondamentali: la brevità della formulazione; la riconosciuta tradizionalità del contenuto (che risulta quasi sempre condivisibile da tutte le culture); la funzione etica e, di conseguenza, didascalica. Accanto a queste, non bisogna dimenticare altre caratteristiche, come per esempio l’aspetto allusivo e metaforico che contraddistingue ogni espressione proverbiale, nonché la sua relazione con il genere letterario della favola, che, con la tipica sentenziosità dei proverbi (ma anche con la densità metaforica degli enigmi), possiede molti punti di contatto.

Perché è importante conoscere e studiare i proverbi? Perché, nel mondo antico, il modo di esprimersi in forma sentenziosa fu qualcosa di profondamente organico alla cultura stessa – e questo vale non solo per la cultura vera e propria, nel senso di quella dotta (come risulta evidente dal fatto che la nostra documentazione è quasi esclusivamente letteraria), ma anche per la cultura popolare e folklorica (come è possibile ricostruire oggi, grazie al metodo comparativo). Gli studi antropologici attribuiscono infatti ai proverbi un ruolo di straordinaria importanza per la ricostruzione dei rapporti familiari, sociali ed economici dei popoli, anche attraverso l’indagine del passaggio dalla tradizione orale a quella scritta.

Cultura alta e cultura bassa, quindi – ma pur sempre cultura, che non si è perduta, perché è giunta fino a noi. Basta scorrere il volume, magari aiutandosi con l’utilissimo indice lemmatizzato di tutti i proverbi antichi (compilato dagli studenti di uno dei più prestigiosi licei classici romani, il Tasso, dove Lelli insegna), lungo più di quattrocento pagine (un vero libro nel libro), per notare, per esempio, che il detto proverbiale «una rondine non fa primavera» non è un’invenzione del nostro Medioevo (e non ha nulla a che vedere con San Benedetto da Norcia), ma è citato per la prima volta da Cratino, un poeta comico del V secolo a.C., che l’aveva preso da una favola di Esopo – un proverbio illustrato da una scenetta dipinta su un vaso a figure rosse conservato all’Hermitage di San Pietroburgo dove un personaggio, indicando una rondine che vola, esclama «Eccola! È già primavera!».