Internazionale

Un’altra offesa per il Bardo

Un’altra offesa per il BardoLa vetrina con la statuetta in bronzo di Dioniso bambino (II-III sec. d.C.) Colpita d aun proiettile – Sameh Arfaoui

Intervista La museologa Sameh Arfaoui critica la scelta di riaprire il luogo della strage solo per un’élite. «Mascherata politicamente controproducente». Ma la società civile ha risposto ancora una volta con dignità

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 26 marzo 2015

Sameh Arfaoui, giovane museologa che collabora col Museo del Bardo di Tunisi, avrebbe dovuto trovarsi al lavoro mercoledì 18 marzo, giorno dell’assalto terroristico. Sotto l’egida dell’Icom e nell’ambito della Giornata Internazionale dei Musei del 18 maggio sul tema dello sviluppo sostenibile promosso dall’Unesco, sta preparando un’esposizione sul mestiere di mosaicista, un percorso per immagini che metta in luce le metodologie antiche e quelle che ancora oggi vengono praticate in Tunisia: dal restauro alla «riproduzione».

Un ritardo provvidenziale le ha forse salvato la vita, accrescendo ancor più il suo senso di responsabilità nei confronti dell’eredità del passato.

Sameh Arfaoui
Sameh Arfaoui, museologa

«Mi sono recata al museo all’indomani della strage – racconta Sameh – ma la polizia scientifica stava eseguendo i rilievi e non mi ha autorizzato ad accedere. Venerdì 20 sono iniziate le pulizie e ho dato la mia disponibilità a parteciparvi. Nonostante un primo intervento da parte degli agenti, la Sala di Cartagine e la Sala del Tesoro rispecchiavano l’orrore del massacro. È stato atroce ma abbiamo lavorato duro nella prospettiva di un’immediata riapertura al pubblico – continua Arfaoui – perché dal giorno successivo all’attacco siamo stati sommersi di messaggi di sostegno da parte dei cittadini. I membri dello staff del Bardo hanno offerto gratuitamente il loro tempo, facendo delle ore supplementari. Io stessa, che presto servizio al museo come volontaria, ho trascurato i miei impegni di studio. Tutto questo perché le persone si riappropriassero di un luogo simbolico. Malgrado la gravità dell’evento, questa sarebbe stata una buona occasione perché i tunisini capissero l’importanza del loro patrimonio. Le cifre ufficiali riferiscono infatti che la maggioranza dei visitatori del Bardo sono stranieri».

Come avete accolto, dunque, l’annullamento dell’annunciata giornata di «porte aperte» prevista per il 24 marzo?

È stata una decisione irrispettosa nei confronti del popolo tunisino e un atto politico controproducente. Il culmine è stato raggiunto con l’organizzazione di una cerimonia riservata a una élite ma trasmessa alla tv nazionale. Durante questa kermesse – che non esito a definire una «mascherata» – abbiamo assistito alla più mediocre messa in scena del folklore e all’onta di un balletto diretto dalla scenografa Sihem Belkhodja, emblema di quella becera cultura per le masse in voga durante la dittatura di Ben Alì. Il privilegio concesso alle autorità non avrebbe dovuto precedere il coinvolgimento della società civile, la quale ha dato ancora una volta prova di dignità, partecipando ugualmente all’apertura con una manifestazione spontanea che si è svolta all’esterno, senza clamore.

Secondo dichiarazioni attribuite dalla stampa al direttore del Bardo, Moncef Ben Moussa, le tracce dell’attentato non saranno completamente rimosse.

Al museo se ne discute. Pensiamo sia giusto lasciare il segno dei tiri, ad esempio su una vetrina o sulle porte dell’ascensore. Anche quest’evento, benché traumatico e doloroso, rappresenta una tappa della nostra storia. Dobbiamo voltare pagina ma ripartendo da quanto è accaduto. La damnatio memoriae non serve, dobbiamo praticare l’etica della responsabilità costruttiva.

Le raffiche dei kalashnikov hanno causato danni alle opere?

La statuetta in bronzo di Dioniso bambino è stata sfiorata da un proiettile e un piccolo frammento di faïence che formava parte di una parete è stato disintegrato. Abbiamo appreso che gli assalitori erano in possesso di esplosivi ma non possiamo sapere se contassero di utilizzarli contro le opere d’arte.

È verosimile prevedere in Tunisia attacchi al patrimonio come quelli che si stanno verificando da parte dell’Isis in altri paesi del Medioriente?

Dopo la rivoluzione del 2011 ci sono stati diversi atti vandalici, mirati alla distruzione di marabout – mausolei di santi – considerati dall’estremismo religioso offensivi per l’Islam, in quanto luoghi in cui si adorano gli uomini e non Dio. Non abbiano notizia, finora, di un accanimento verso siti archeologici appartenenti alle civiltà pre-islamiche.

Quali sono le prospettive della museologia in Tunisia?

È una disciplina nuova da noi, che fatica ancora a trovare un suo spazio e un riconoscimento professionale. Allo stato attuale, se venissi assunta col mio titolo verrei pagata 300 dinari (circa 120 euro, ndr) al mese. Nella migliore delle ipotesi, superando un concorso interno, ne guadagnerei cinquecento. Noi giovani che ci specializziamo nei mestieri del patrimonio siamo motivati, vogliamo restare nel nostro paese e cambiare le cose. Però succede che molti, visti i mezzi a disposizione e la miseria dei salari, si scoraggiano e finiscono per assumere le norme comportamentali della generazione precedente. In un museo ci sono il direttore, che ha un ruolo prevalentemente amministrativo, e i ricercatori, ai quali tuttavia non competono la logistica, l’organizzazione degli eventi e l’animazione. Un museologo elabora i progetti, propone nuove idee. È una figura necessaria ma per farla accettare bisogna intervenire su mentalità cristallizzate, dare impulso a nuove dinamiche, anche dal punto di vista economico. Io ho coscienza di una realtà imperfetta e investo le mie energie per migliorarla. Il fatto che altri s’impegnino per raggiungere le stesse aspirazioni mi dà coraggio. Da quatto anni lavoriamo per mutare la società e la democrazia non esclude il campo del patrimonio.

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