Un’altra Beth Gibbons
Ultima Dopo un lungo ritiro, il ritorno dell’ex voce dei Portishead. In «Lives Outgrown» – in uscita il 17 maggio, canzoni sospese fra lutti, riconciliazioni e l’accettazione dei propri limiti
Ultima Dopo un lungo ritiro, il ritorno dell’ex voce dei Portishead. In «Lives Outgrown» – in uscita il 17 maggio, canzoni sospese fra lutti, riconciliazioni e l’accettazione dei propri limiti
«Oltre ai dischi con i Portishead, all’album Out Of Season con Rustin Man e ad aver inciso nel 2014 la Sinfonia n. 3 Dei canti lamentosi di Henryk Górecki, recentemente ha collaborato con Kendrick Lamar in Mother I Sober tratto da Mr Morale & the Big Steppers del 2022». Per essere la nota biografica di una delle voci più riconoscibili e intense degli ultimi trent’anni, è piuttosto concisa. Quando alla ritrovata Betty Davis (grande diva funk) chiedevano «Cosa hai fatto tutto questo tempo?», lei rispondeva «Ho vissuto». Beth Gibbons risponderebbe che ha visto spegnersi persone care e familiari, compreso il suo vecchio io. Lots of goodbyes. «Le persone hanno iniziato a morire. Quando sei giovane, non sai come a va a finire. Pensi che a tutto si può porre rimedio, che le cose andranno meglio. Certi finali sono molto difficili da mandare giù», dice a proposito di Lives Outgrown, il primo album da solista, in uscita il 17 maggio. Esistenze superate, che non ci stanno più, come un vecchio vestito. «Ho scoperto che significa la vita senza più speranza, non avevo mai conosciuto una tristezza simile. Prima, avevo la capacità di cambiare il futuro, ma quando sei tu contro il tuo corpo, non puoi costringerlo a fare una cosa se non vuole».
DOPO aver vissuto in un tunnel per una decina di anni, anziché morire come ormai sei certa che stia per accadere anche a te, tragicamente consapevole della tua ineludibile mortalità, scopri invece di essere finita sul versante opposto della galleria. Un riallineamento, un assestamento, altre coordinate esistenziali, un altro corpo, la menopausa, e un’altra psiche. «Adesso che sono sbucata dall’altra parte, penso che bisogna essere coraggiosi», dice Beth. L’ultima volta che sono stata in Inghilterra, ho guidato per mille miglia in una settimana. Un giorno sono partita in auto da Wendover, nel Buckinghamshire, alla volta della Cornovaglia. Appena superato Bristol, uno svincolo della M5 indicava Portishead. Sono stata tentata di imboccarlo e di andare a vedere la cittadina del Somerset da cui il gruppo di Beth prendeva il nome, il «porto alla testa del fiume» Severn. Ma era già pomeriggio inoltrato, la strada per Tintagel ancora lunga, e avevo fretta di raggiungere Merlino. La prossima volta, Beth, e ho tirato dritto.
Molti anni prima, nell’agosto del ‘94 era uscito Dummy, l’esordio dei Portishead, accolto da un’onda di entusiasmo. Trip hop dark, cinematografico, chic, in cui sprofondare all’infinito come Alice, in un pozzo foderato di velluto rouge-noir di pura seta. L’unica cosa immutata da allora è che, nonostante la Brexit, Bristol è rimasta una città vibrante, anche per aver gettato in mare le statue spodestandole dai loro piedistalli insanguinati.
Quando sei giovane , non sai come va a finire. Pensi che a tutto si può porre rimedio, che le cose andranno meglio. Certi finali sono molto difficili da mandare giù.
DOVEVA essere fine estate o l’autunno del ‘94, eravamo nella grande hall di un enorme albergo romano, sedute una di fronte all’altra, separate da un tavolinetto basso. Eravamo entrambe alle nostre prime interviste. Beth aveva già fama di timida patologica, reclusa, laconica con la stampa. Ho estratto dalla borsa un registratore e l’ho sistemato sul ripiano di vetro, sotto il suo sguardo apprensivo. Poi ne ho tirato fuori un altro. «Perché non si sa mai», ho detto. Lei, che osservava i miei movimenti in silenzio, senza staccare gli occhi dal tavolo ha commentato divertita: «Sei più nevrotica di me». Trent’anni dopo resto convinta che un pareggio sarebbe stato più equo.
Il 1994, l’anno di Jeff Buckley, l’anno dei Portishead.
Il 2024, l’anno dell’album country di Beyoncé, dei trattati sociologici su Taylor Swift e dell’esordio solista di Beth Gibbons. Stavolta niente interviste, ma se ci sedessimo di nuovo a quel tavolino, nel via vai della hall rumorosa, le chiederei: «Sono tue le galline che si sentono alla fine di Whispering Love, l’ultimo brano?». Cantano così dopo aver deposto l’uovo, per la contentezza. A casa in campagna, capitava che telefonate di lavoro in cui darsi un certo contegno venissero squarciate dal canto borioso di un gallo in pieno pomeriggio. A chi mi chiedeva ridendo dov’ero rispondevo «All’aeroporto».
FORSE Lives Outgrown è l’uovo deposto da Beth Gibbons. L’abbiamo aspettato così tanto da aver perso le speranze. È sorprendente quanto sia omogeneo un disco registrato nell’arco di dieci anni, talmente coeso da far pensare ai movimenti di una sinfonia o di un concerto. Quando una musicista significa così tanto, è inevitabile riversarle addosso gli amori di una vita. Sarà per questo che le corde pizzicate di Tell me who you are today, il primo brano, accendono il circuito neuronale che porta a Free Ride, uno dei brani di Pink Moon di Nick Drake. Corde robuste, suonate da dita muscolose, note scure, e un’invocazione simile a essere ascoltati, a non essere soli. Il disco è prodotto da James Ford (ex The Last Shadow Puppets, produttore di Arctic Monkeys, Depeche Mode, Blur) e dalla stessa Gibbons con l’aiuto di Lee Harris (ex batterista dei Talk Talk, gruppo per cui Beth ha una predilezione, vista la collaborazione con Paul Webb/Rustin Man). Certi dischi nascono con le percussioni. In Fetch the bolt cutters Fiona Apple ha letteralmente suonato gli interni della sua casa, improvvisando un’orchestra di percussioni indoors. Disgustata dal suono risciacquato dei rullanti, un giorno in studio Beth ha dato un calcio a una scatola di cartone e le è piaciuto. Poi è toccato a un cassetto di legno, un Tupperware, lattine piene di legumi, per finire con una batteria formata da un recipiente per la paella, un foglio metallico, pezzi di mixer, una borraccia di pelle, e una scatola piena di tende come grancassa. Si è concessa un po’ di shopping: un dulcimer e uno strumento che sembra un ukulele senza tasti, con corde di gomma e il suono di un contrabbasso. «Tira fuori qualcosa da questi», ha detto a Ford allungandogli dei flauti che lui non suonava più dalle elementari. «Non dobbiamo mica essere la Filarmonica».
EPPURE l’effetto è incredibilmente sinfonico. Le vite-che-ci-stanno-strette sono Canti Lamentosi – cosa ha significato cantare Górecki, Beth?, le chiederei – austere e dolenti invocazioni laiche. Floating on a moment galleggia su corde nodose di basso, echi di voci spettrali e cori di bambini. Beth, la nostra Mater Dolorosa. Burden of life incede con archi cupi, stridenti, come il fardello della vita che non possiamo scrollarci di dosso. Sono tempi che ti sfiniscono. Lo cantava già in Threads, alla fine di Third dei Portishead che era «stanca e logorata», parole che tornano in Oceans («Cos my heart was tired and worn»). In Lost Changes, versi pacati ci confortano in questo maggio su cui incombono nuvoloni neri, il cielo uno specchio della cupezza dei tempi: prendi atto della tenerezza, apprezza una carezza dolce, perché per dirla con franchezza «l’amore cambia, le cose cambiano, la vita cambia, siamo tutti persi insieme».
È un disco stoico, sono dieci canzoni che parlano del mutare della vita e del nostro accanimento contro Madre Natura: «And the wild has no more to give. Makes no sense. This place is out of control», canta in Rewind. Non possiamo riavvolgere la nostra vita, ma possiamo suonare Lives Outgrown daccapo. Che disco magnifico, Beth.
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