All’apparire dell’autobiografia di Günter Grass, Sbucciando la cipolla, lanciata in tutto il mondo come il libro definitivo in cui l’ormai anziano scrittore e cuoco dilettante, da decenni campione della sinistra tedesca più illuminata e pacifista, confessava di aver servito nei corpi delle Waffen-SS, il grande e arguto critico di origine ebraica Marcel Reich-Ranicki commentò il libro con una delle frasi lapidarie che l’avevano reso il più famoso e amato fra i commentatori della letteratura contemporanea: «Ma che roba è? Duecento pagine di cucina e una pagina e mezzo di SS». Con ciò la sofferta confessione era stata liquidata. Questo ricordo ha qualche ragione di tornare alla mente quando si affrontano le 900 pagine della grande saga familiare di Gabriele Tergit, Gli Effinger (traduzione di Isabella Amico Di Meane e Marina Pugliano, Einaudi Stile libero Big, pp. 920, € 24,00) lanciata in tutto il mondo e ora anche in Italia, a settant’anni dalla loro prima apparizione, come i Buddenbrook ebraici.

L’avvertenza di Springer
Con il romanzo di Thomas Mann questo ha in comune non solo il passo lungo, ma anche una quantità di episodi, immagini e personaggi che ben difficilmente si possono considerare casuali, visto, per giunta, che una figura marginale della prima parte è una modista chiamata solo con il cognome, Mann. Ma di ebraismo, per grandissima parte del romanzo, non c’è quasi traccia. Di tanto in tanto alcuni protagonisti si pongono incidentalmente il problema delle loro origini, ma l’argomento viene immediatamente accantonato, salvo riapparire nel finale della saga, che si conclude quando la Germania nazionalsocialista ha appena cominciato la sua opera di sterminio. Perché, allora, insistere tanto sulla matrice ebraica del libro? Tanto più che la stessa autrice – come ricorda Nicole Henneberg nell’informativa postfazione – rifiutava per il suo capolavoro l’etichetta di «romanzo del destino ebraico»: l’editore Springer, scriveva a Ernst Rowohlt nel 1949, «commetterebbe un grave errore se presentasse come ebraico un libro così legato alla storia e alla cultura tedesca».

Gabriele Tergit, al secolo Elise Hirschmann, giornalista giudiziaria nell’ultima fase della Repubblica di Weimar e narratrice giunta al successo con il suo primo romanzo, Käsebier conquista il Kurfürstendamm, ha avuto vita e storia editoriale travagliatissime. Fuggita dalle persecuzioni prima in Cecoslovacchia, poi in Palestina e infine a Londra, ha portato con sé il suo romanzo sulla famiglia Effinger per vent’anni, cominciandolo nel 1931 e terminandolo nel 1951, quando la sua materia non poteva che andare incontro a un clamoroso insuccesso nella Germania intenta a rimuovere i ricordi recenti insieme a quelli del suo passato imperiale e bellicoso.

Solo nel 1977, dopo la riscoperta del Käsebier, la sua opera ricominciò ad attirare l’attenzione del pubblico, tanto che l’autrice, cui rimanevano ormai solo cinque anni di vita, poté ancora godere di quel riconoscimento che le consentì di rimaneggiare e ripubblicare i suoi romanzi.

Ma a cosa si deve, dunque, il valore degli Effinger? Alla rappresentazione, straordinariamente dettagliata e puntuale, di una cultura che non aveva mai avuto, come tale, diritto di cittadinanza nella letteratura «alta» e che proprio mentre Gabriele Tergit scriveva era oggetto della critica feroce di un autore come Hermann Broch, che vi riconosceva l’essenza stessa del problema morale nell’arte: la cultura del kitsch. Il profluvio di kitsch che il romanzo offre non può essere misconosciuto, né deve essere passato sotto silenzio, perché di questo vivono i borghesi della capitale prussiana, come tanta parte della borghesia tedesca e europea di ogni tempo.

I salotti, i bovindi, i balli, i tessuti, le suppellettili, i versi sghembi dei poeti da quotidiano e persino i pensieri, le svenevolezze, il sentimentalismo delle conversazioni e delle epistole amorose sono così volutamente artificiosi, malamente copiati da modelli inarrivabili e ridotti a convenzione esibizionistica da non poter essere definiti altrimenti che kitsch. Tergit è abilissima nel costruire quindi una doppia trama che prima contrappone e poi unisce le famiglie dei volubili Oppner agli alacri e sobri Effinger, la pomposa e vana dinastia di banchieri dalla morale ferrea e la giovane generazione dei self made men che in fondo non aspirano se non a condividere l’agiata esistenza del capitalismo ereditario attraverso il successo che gli proviene dall’apertura alla modernità e dall’audace capacità imprenditoriale.

Per molte, molte pagine, dunque, il kitsch amato dai ricchi e, in fondo, ingenui discendenti della vecchia generazione di uomini d’affari e, in fondo, ammirata anche dai nuovi industriali pervade le pagine del romanzo. Non solo. Benché non manchino figure impalpabili come l’insopportabile Annette o arroganti come la bella Eugenie e poi giocatori, truffatori, ladri e altro ancora, l’occhio di Tergit nutre e trasmette un certo compiacimento per le discutibili predilezioni estetiche degli Oppner e per l’orgoglio con cui i giovani Effinger esibiscono le loro belle mogli agli sbigottiti concittadini del loro paese d’origine. Perché il romanzo, in perfetto contrasto con la critica contemporanea, riconosce nella cultura del kitsch il marchio di un’epoca non priva di grandezza e irriducibile al rigido metro di una misura morale.

Tutto ciò che, in Germania e in Europa, non fu Kulturbürgertum, la borghesia cólta sempre rappresentata e rimpianta dalla grande arte, fu Kitschbürgertum, la borghesia del cattivo gusto romantico, guglielmino, persino weimariano: ma il punto è che per Tergit, diversamente da Broch, quest’ultima non fu colpevole d’altro che di aver voluto vivere al di sotto dei propri mezzi: troppo facilmente appagata da una modesta idea di bellezza per poter aspirare al suo superamento e alla propria emancipazione da un’ingenuità di cui non poteva neppure immaginare i rischi. Per Tergit il kitsch non si identifica, come per Broch, con «il problema del male nel sistema di valori dell’arte», ma con quello della semplicità fiduciosa che conserva l’individuo in una condizione di autoappagata inconsapevolezza tanto compiaciuta quanto incolpevole.

L’errore più grave
Se nel 1950 Broch individuava in Hitler il seguace ideale del kitsch, Tergit capovolge il discorso e fa del kitsch la categoria estetica in cui si identificano il mondo e l’esistenza delle sue vittime. Per questo è così indispensabile al romanzo la provenienza ebraica dei suoi protagonisti e per questo Gabriele Tergit si pose a lungo la domanda intorno al modo di rappresentare la fine dei suoi personaggi. La soluzione fu quella di non nascondere la tragedia, ma di rappresentarla in diminuendo, attraverso poche pagine scarne in cui tutto avviene senza che possa essere raccontato.

I suoi personaggi, con i quali la narrazione si identifica, vanno incontro alla loro fine senza realmente capire fino all’ultimo. «Il rimorso di non aver dato retta alla vostra cara madre, la mia amata Klärchen, che come ogni donna ha sempre voluto andar via mi perseguita», scrive Paul Effinger nella sua ultima lettera. «Ho creduto nella bontà umana: è stato l’errore più grave di questa mia vita fallimentare». Non è nel male il potenziale distruttivo del kitsch, ma nell’ingenua rappresentazione della bontà che esso offre con la serenità pacificata del suo sentimentalismo, nella sua elementare piacevolezza, nella sua fuga dall’inquietudine, nel suo senso comune a buon mercato.