Cultura

Una transizione ancora da raccontare

Una transizione ancora da raccontarePartigiani sfilano nella città in festa il giorno della Liberazione

Novecento «Storia della Resistenza» di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli (Laterza). Nonostante l’epica celebrativa, non fu un fenomeno concluso, ma un inconsapevole atto fondativo. Oggi, sempre più spesso, la lotta di Liberazione, e con essa l’antifascismo, vengono schiacciati sull’asse della parificazione tra «totalitarismi». Anche per questo va assunto l’oggetto di indagine come un dato problematico, tale perché rilevante nella coscienza di un’epoca trascorsa ma ancora aperto sul piano degli echi di ritorno

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 10 gennaio 2020

Scrivere ancora una volta una storia della Resistenza parrebbe essere un’impresa tanto impegnativa quanto tardiva e, alla resa dei conti, potenzialmente infeconda. La ricerca storica ha peraltro fatto ampi passi in avanti nella ricostruzione delle tante trame di cui la lotta di Liberazione, ciò che l’ha preceduta e quanto l’ha seguita, sono intessute. Sono a disposizione di chiunque, armandosi di buona volontà, ne voglia acquisire i risultati. Se poi l’intenzione è ancora quella di riproporre un repertorio di atti e gesti, di personaggi e di eventi, secondo uno schema che incorpora in sé l’idea bislacca che la storia sia pura cronologia, a sua volta sospesa tra epica celebrativa e retorica della condanna, allora si può ben dire che il tempo sia perduto. Il tempo della ricerca, si intende. Ma anche il tempo storico, al quale ci si rivolge solo per dare ulteriore credito esclusivamente ai propri pregiudizi.

Diverso è invece il discorso se si assume l’oggetto di indagine come un dato problematico, tale proprio perché rilevante nella coscienza di un’epoca trascorsa ma ancora aperto sul piano degli echi di ritorno. La Resistenza, da questo punto di vista, non fu mera transizione. Non contraddistinse un’età conchiusa – costituendo pertanto un fenomeno circoscritto – e quindi riconducibile a poche, evidenti coordinate. Piuttosto, segnò una trasformazione i cui effetti si sarebbero misurati essenzialmente sul lungo periodo, a fatti d’armi oramai esauritisi. Fu quindi un inconsapevole atto fondativo.

TUTTA LA VICENDA resistenziale, d’altro canto, può essere ricondotta e riannodata intorno ad alcuni passaggi decisivi, sui quali si impongono le questioni relative al rapporto tra spontaneità e organizzazione e l’interrogativo cardine, mai esaurito, tra monopolio della forza (disintegrato dal fascismo medesimo all’atto del suo declino) e ricorso alla violenza, soprattutto laddove quest’ultima istituisce nuove forme di legittimità. Due elementi, questi ultimi, che attraversano l’intero Novecento, quando ci si interroghi sul ruolo tra masse e potere, ossia sull’irruzione di queste nel recinto del secondo.

Qual è pertanto il rapporto che l’azione politica deve intrattenere con la violenza nel corso della storia? In altre parole, poiché l’esercizio di potere – in qualsiasi condizione esso avvenga – si consuma sempre sotto il segno di un’asimmetria di risorse e forze, quindi con il ricorso alla coercizione, come deve essere valutata la violenza, sia di natura fisica che di altro genere, in un tale contesto conflittuale? Al netto delle condanne di principio, ispirate a una logica dell’umanitario che ha oramai pervaso ogni anfratto della politica, se non altro per segnalarcene anche in tale modo la sua decadenza, siamo spesso privi di un’idea al riguardo.

LA FORZA non è necessariamente odio. Anche se frequentemente si alimenta di esso, come carburante propulsivo. La forza – il cui monopolio è attribuito allo Stato – nel momento in cui quest’ultimo decade, si trasforma in violenza. Non per una questione di diversa intensità rispetto al suo esercizio bensì per una crisi di legittimità. La quale rimanda a chi è abilitato ad esercitarla, ovvero a risultare giustificato – a posteriori, ossia a fatti consumati – nel ricorso ad essa.

La rigenerazione di un potere, quand’esso si è esaurito e viene avvicendato da un altro, ruota intorno a questo passaggio strategico. E al consenso che i protagonisti di tale transizione riescono a costruire intorno a sé. Ovvero alla sua continuità, al suo costituirsi come il centro di una nuova narrazione dalla quale si diramano, per molteplici transiti, nuove prospettive. Anche per questa irrisolta ragione continuiamo a riflettere sul tema della Resistenza, del suo timbro, dei suoi lasciti. Poiché essa si è confrontata con il fascismo che, della ricostruzione di un potere come raffigurazione mitografica di un’identità politico-istituzionale così forte al punto da essere inscalfibile, ne aveva fatto una delle sue ragioni primarie.

LA RESISTENZA ITALIANA, come quelle europee, rompe questo meccanismo che è dichiaratamente «totalitario» poiché ambisce a racchiudere il pluralismo di società di massa all’interno di un contenitore univoco. Un nuovo libro firmato da Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, Storia della Resistenza (Laterza, pp. 673, euro 35), riapre aspetti della riflessione che già diversi autori, il cui magistero culturale è pienamente assodato, come Claudio Pavone e Santo Peli, avevano contribuito ad alimentare in ricchezza e varietà di interpretazioni.

Per come il voluminoso testo è articolato, per la sua interna struttura e la disposizione dei materiali, articolati in diciotto capitoli tematici, svolti comunque secondo un criterio cronologico, dall’anteguerra al dopoguerra, forse parlare di «Storie delle Resistenze italiane» sarebbe alla fine risultato più pregnante. Ma non è questo il punto.

LA SCELTA DELL’ARCO cronologico è volutamente ampia, partendo ben prima dei confronti armati che si innescarono con l’8 settembre e nei giorni successivi, per abbracciare un respiro politico che, invece, nelle stanche discussioni che da anni oramai si trascinano, si è completamente appannato. In questo, sulla scorta di molti autori che li hanno preceduti, Flores e Franzinelli si sforzano di restituire alla lotta per la Liberazione quella sua intrinseca natura di insieme complesso di fatti, eventi e attori che generarono, nel corso del tempo, nuova politica. Ovvero, il ritorno a essa dopo la lunghissima parentesi fascista.

NON A CASO, l’esordio del testo è accompagnato dalla consapevolezza che ci sia qualcosa di peggio dello stallo, ovvero della permanenza di un regime svuotato dal di dentro, ed è la «falsa rivoluzione», qualcosa di sospeso tra il gattopardesco e la restaurazione permanente, fatta però passare per trasformazione radicale. Il fascismo appartiene a questa seconda categoria, almeno per come la giudicava Giaime Pintor poco prima di morire. Ma anche a molto che a esso si sarebbe avvicendato. Poiché è lo stato di necessità a generare una risposta corale e non diversamente.

Nel seguire a ruota, tra le diverse questioni all’ordine del giorno, si pongono, capitolo dopo capitolo, i nodi di quei seicento giorni. Nessuno di essi viene sciolto dagli autori poiché non è questa una storia che ci voglia restituire una facile razionalizzazione di quell’epoca.

Tra di essi i temi della creazione di una nuova classe dirigente; della necessaria riforma del vecchio Stato centralistico, dovendolo però difendere per non cadere nel caos (Vittorio Foa); la questione della lealtà e del tradimento, particolarmente avvertita tra i militari; la natura del progressivo processo di politicizzazione della Resistenza; la coesistenza competitiva di diversi centri di decisione all’interno del movimento resistenziale, tra Milano, Roma e, in un primo tempo, Bari; il problema del rapporto tra il Cln e i comunisti; i legami conflittuali tra centri politici e periferie partigiane, ossia la lotta tra coordinamento, distinte visioni dei tempi, luoghi e dei modi dell’azione nonché la sostanziale indipendenza del comando delle Brigate Garibaldi; la difficile se non impossibile dialettica tra centralismo burocratico, federalismo politico, soggettivismo operativo e la sostanziale impossibilità di coniugare queste dinamiche dopo la Liberazione; il rapporto tra giustizia e libertà; il legame conflittuale tra minoranza attiva e maggioranza inerziale, al nocciolo della «guerra civile»; l’irrisolta questione del costituirsi di una legalità nella e della organizzazione partigiana e la legittimità del ricorso alla lotta armata; lo spontaneismo operaio, lo sciopero politico e la passività dei ceti sociali medio-alti.

L’ELENCO POTREBBE proseguire. Per lo storico non è materia inedita. Per il lettore, invece, è terreno di sfida intellettuale. Soprattutto se intenda sottrarsi ai persistenti giochini tra revisionismi interessati e apologie sacerdotali, laddove in realtà i due antitetici approcci rivelano molteplici, nonché crescenti, tratti di specularità. Poiché c’è un ampio orizzonte che si apre a chi vuole e intenderà continuare a ragionare sulla Resistenza come fondamento della Repubblica.

Sempre più spesso, la lotta di Liberazione, e con essa l’antifascismo, verranno infatti schiacciati sull’asse della parificazione tra «totalitarismi». Si tratta peraltro di una componente fondamentale di quella lotta per il dominio subculturale che, dagli anni Ottanta in poi, si è aperta nel nostro Paese, proseguendo nell’oggi. Dotarsi di strumenti argomentativi sul passato è la premessa per tornare a fare della politica un’arena di significati, senza i quali a mancare sarà il tempo futuro.

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