Una tragedia epocale in musica
Scaffale «E non mai più la guerra. Canti e racconti del ’15-18» di Cesare Bermani e Antonella De Palma. Una preziosa raccolta di memorie sonore, come quella strofa «o regazzine belle, amate i disertori/ copriteli di baci/ non sono traditori»
Scaffale «E non mai più la guerra. Canti e racconti del ’15-18» di Cesare Bermani e Antonella De Palma. Una preziosa raccolta di memorie sonore, come quella strofa «o regazzine belle, amate i disertori/ copriteli di baci/ non sono traditori»
Alle numerose ricerche prodotte in occasione dell’anniversario della Grande Guerra si è recentemente aggiunto un libro curato da Cesare Bermani e Antonella De Palma. Si tratta del volume E non mai più la guerra. Canti e racconti del ’15-18 ( Società di mutuo soccorso Ernesto De Martino, Venezia): centoquaranta pagine, dense e agili, accompagnate da due cd, dal chiaro valore documentario, con le quali gli autori restituiscono, attraverso la raccolta dei canti dei soldati (e la riproposizione e analisi dei testi), uno spettro dei loro sentimenti, mettendone in luce le traversie e le difficoltà, le prese di posizione politiche e le contraddizioni. I due cd contengono le preziose registrazioni originali dei canti, raccolti dagli stessi curatori o da studiosi e ricercatori italiani che, a partire dagli anni Sessanta, si sono distinti proprio nel lavoro di recupero di storie, canzoni, narrazioni popolari, contribuendo in maniera decisiva alla scrittura di un’importante pagina della storia culturale delle classe lavoratrice italiana – si parla, tra gli altri, di Emilio Jona, Sergio Liberovici, Michele Straniero, Quinto Antonelli, Franco Castelli, Alessandro Portelli, Amerigo Vigliermo.
Bermani e De Palma mostrano, anzitutto, come nel canto le esperienze individuali trascendessero se stesse fino a diventare discorsi collettivi, memorie comuni musicate e pronunciate dai soldati al fronte allo scopo di costruire e trasmettere il ricordo di una tragedia epocale, contribuendo a metabolizzare il quotidiano contatto con la morte. I testi delle canzoni assumevano spesso la forma di lettera, lo strumento attraverso il quale negli anni della guerra, milioni di uomini e di donne poco o per nulla alfabetizzati impararono a comunicare.
Nelle strofe sono costantemente descritti gli scenari a cui ogni soldato sentiva di appartenere, cioè quelli segnati dalla mancanza dei propri cari, dal dolore per le perdite dei compagni, dalla paura di non tornare. Talvolta, nel canto, la voce narrante è quella di un uomo già morto, di uno spettro che si rivolge ai vivi dall’oltretomba: «I miei gigli son piccolini/ loro andran sempre mendicando/ loro stan sempre ad aspettare/ il ritorno del suo papà./ Suo papà è morto in guerra/ suo papà è morto in guerra/ seppellito in quella terra/ e mai più lo rivedrem».
Intrappolato tra le linee di trincea, il soldato esorcizzava e insieme celebrava così la propria fine, resa più familiare dagli esisti di ogni battaglia, e dettava, in un grande rito collettivo, la recitazione del proprio testamento spirituale, nel quale poteva rientrare un’indicazione, approssimativa perché simbolica, del luogo della propria sepoltura.
Accanto alla rassegnazione, trovavano spazio la rabbia e il desiderio di ribellione. Nei canti, il mondo dei soldati appariva connotato dalla loro comune appartenenza di classe. Il «noi» di soldati lavoratori che morivano in guerra si contrapponeva al mondo dei signori, degli studenti o degli intellettuali, che avevano voluto quella stessa ecatombe: «Ma la colpa son degli studenti/ che la guerra lor l’hanno voluta/ e hanno messo l’Italia nel lutto/ per molti anni dolor si sentirà»; «Quei vigliacchi dei signori/ la credevano una passeggiata/ ed invece l’han sbagliata/ quei vigliacchi dei signor». Erano sentimenti espressi con parole di gente comune, contrapposizioni costruite con gradi di elaborazione ideologica molto variabili, talvolta istintive, in cui si sintetizzavano le comuni esperienze della sottrazione e della privazione.
Anche le voci dei disertori e del desiderio di fuga trovano posto nel canzoniere di guerra, accanto al grido di chi vedeva nei disertori dei vigliacchi. Colpisce come nell’uno e nell’altro caso la rappresentazione del disertore mettesse spesso al centro del discorso la donna, simbolo d’assenza e desiderio: «O regazzine belle, amate i disertori/ copriteli di baci/ non sono traditori» era l’invito di chi sognava la fuga e la considerava un diritto. Per contrasto, «O vigliacchi che voi ve ne state/ con le mogli sui letti di lana», era l’accusa di chi si sentiva in dovere di rimanere al fronte, per senso d’onore.
Questi e molti altri sono i temi toccati attraverso le canzoni di cui Bermani ripercorre le storie, indicando gli informatori che gli consentirono di registrarle e andando alla ricerca dei rapporti di discendenza e di filiazione tra questi e altri canti prodotti nel corso di conflitti precedenti, come il disastro militare dell’Amba Alagi del 1895 o la guerra di Libia.
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