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Una tradizione che si nutre di ironia

Una tradizione che si nutre di ironia

Intervista Lo scrittore spagnolo Javier Cercas parla del "Punto cieco", una ipotesi teorica alla base dei suoi nuovi saggi

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 3 aprile 2016

Fin dalle sue prime prove di scrittore Javier Cercas si propose di dare forma a una propria personale tradizione, e di formulare una sua rivisitazione del romanzo in chiave antirealista. Cominciò, naturalmente, dalla messa a fuoco degli esempi dai quali intendeva tenersi lontano, e li individuò in quei romanzi in cui tutto è reso esplicito, così che al lettore restano da attuare ben poche congetture. Poi si disse ciò che non voleva essere: solenne, sentimentale, riguardoso verso le convenzioni, e soprattutto impegnato. Voleva che la sua narrativa fosse irriverente e all’occorrenza cinica, che fosse metaletteraria e concepisse se stessa come un gioco, sebbene serissimo. In una parola, e non a caso furono due lunghi articoli di John Barth a chiarirgli le idee, voleva che fosse postmoderna.
All’epoca non suonava disdicevole, e soprattutto – ciò che in casi simili è sempre un vantaggio – suonava vago, aperto a molte possibili interpretazioni. Quella che ne diede Javier Cercas virò immediatamente verso l’individuazione di ciò che avrebbe dovuto costituire il minimo comune denominatore dei suoi romanzi: lo trovò e lo chiamò Il punto cieco, espressione che dà il titolo ai saggi appena usciti da Guanda (traduzione di Bruno Arpaia, pp. 159, euro 17,00). Come molte fortunate figure metaforiche, anche questa trae origine dall’anatomia del corpo umano: pare che le nostre retine abbiano un punto laterale, non facilmente localizzabile, privo di ricettori per la luce, e attraverso il quale non si vede nulla. Se non lo percepiamo è perché, come ipotizzò nel Seicento il fisico Edme Mariotte, nei due occhi i punti ciechi non coincidono, dunque l’uno vede quel che non vede l’altro e il cervello, per parte sua, supplisce con l’informazione ai vuoti del sistema visivo.
Prima ancora di trovare una espressione adatta a renderne conto, si rese evidente a Cercas come i suoi romanzi ruotassero tutti intorno a una domanda della quale non era possibile indovinare la soluzione, «una minuscola indeterminazione centrale» a partire dalla quale, o per approdare alla quale, tutto il romanzo avrebbe precisato la sua consistenza equivoca, contraddittoria, essenzialmente ironica.
Prendiamo il maggior successo dello scrittore spagnolo, Soldati di Salamina: sfuggito alla fucilazione, il poeta e ideologo fascista Rafael Sánchez Mazas si rifugia nel bosco più vicino; ma lo raggiunge un soldato repubblicano, scambia con lui uno sguardo e invece di sparargli se ne va. Cosa è passato in quella occhiata tra i due? Tutta l’inchiesta sulla quale si regge l’architettura del romanzo ruota intorno a questo punto cieco, la motivazione stessa del raccontare si irradia da questa domanda, che resterà senza risposta. Prendiamo un altro e molto diverso romanzo: cosa spinse il primo ministro Adolfo Suárez, il vicepresidente del governo e ex generale franchista Manuel Gutiérrez Mellado, e il segretario generale del partito comunista, Santiago Carrillo – tre uomini che, ognuno a modo loro, avevano dimostrato un certo disprezzo per la democrazia, a mettere in gioco la loro vite per difenderla, quando il 23 febbraio del 1981 un gruppo di guardie civili irruppe nel parlamento spagnolo per un golpe che avrebbe dovuto interrompere il processo avviato dalla morte di Franco? Come mai proprio loro si rifiutarono di buttarsi a terra e sfidarono la morte, si chiedono le oltre 400 pagine di Anatomia di un istante, il romanzo forse più saggistico di Cercas, che ovviamente evade ogni risposta? E d’altra parte non c’è certezza, nemmeno una vaga idea di chi né perché abbia denunciato la banda del delinquente Zarco, in Le Leggi della frontiera, il cui intreccio si chiuderà senza approdare a una risposta, e così via lungo tutti i romanzi di Cercas al cuore dei quali sta questo silenzio dal quale si sprigiona l’eloquenza narrativa, questa zona opaca da cui filtra tutta la tensione della trama, «una crepa, un minuscolo punto di fuga del significato».
Nessuna stanchezza, che pure si fa sentire alla fine di ogni tour promozionale, può spegnere la passione di Cercas quando si immerge nel racconto di ciò che ha motivato un suo libro: l’intervista qui accanto si è svolta alla fine di marzo, in un albergo romano.
Di solito, a quale stadio della elaborazione di un romanzo individua dove situerà il suo «punto cieco»?
Ogni caso è diverso, parto sempre senza sapere dove collocherò la zona di opacità dalla quale intendo che si irradi tutta la luce conoscitiva del romanzo. Certo, ora mi piacerebbe scartare da questa prospettiva, ideare un romanzo senza punto cieco, perché uno scrittore non può essere schiavo delle sue teorie. Fin dai miei primi libri, Il movente e Il nuovo inquilinio, due romanzi tipicamente postmoderni, mi sono accorto che al centro c’era una domanda irrisolta, solo più tardi però ne ho capito l’origine. In alcuni casi questa ambiguità è dichiarata fin dall’inzio, per esempio in Soldati di Salamina, o in Anatomia di un istante, in altri arriva solo a un certo punto, ed è meno esplicita, per esempio in Le leggi della frontiera. Rivedere i miei romanzi alla ricerca di questa ricorrenza mi ha permesso di individuare una tradizione nella quale mi piace pensare di inserirmi, e rileggere alla luce di questa mia intuizione capolavori a me cari: innanzi tutto il grandissimo libro di Cervantes, che non permette mai di stabilire con certezza se Don Chisciotte sia pazzo o sia savio, o se i romanzi di cavalleria siano da deprecare o da tenere in gran conto. Questa contraddittorietà infetta tutto il libro, contagiando anche Sancho e gli altri personaggi. Dal Chisciotte erediteranno questa forma di ironia tutta una serie di romanzi che vanno dal Bartleby di Melville al Wakefield di Hawthorne e per altri versi anche Moby Dick, dove è irrilevante stabilire se la balena bianca sia il Male o il Bene, Dio o il Diavolo. Lo stesso Achab è un grand’uomo ma anche un malato di odio, un marinaio libero ma anche uno schiavo della sua ossessione: ecco, questi sono romanzi in cui si trova un punto cieco di ordine concettuale, perché sono fondati su enigmi irresolubili, sono incarnazioni dell’ironia che è intrinseca alla contraddizione, all’ambiguità. Ma ci sono poi altri tipi di romanzi in cui il punto cieco riguarda il registro narrativo, perché deriva, per esempio, dalla sottrazione di un dato essenziale. Prendiamo Il processo di Kafka: com’è possibile che Josef K. venga arrestato se non ha fatto niente di male? Di cosa è accusato? Non lo sapremo mai. Del resto è innocente, certo, ma al tempo stesso nessuno è senza colpa nel mondo di Kafka. E nei Duellanti di Conrad? Chi può dire quale sia stata la reale origine del conflitto tra Armand D’Hubert e Gabriel Féraud? E nel Giro di vite di Henry James non sono forse irrilevanti le erudite dispute degli studiosi per stabilire se i fantasmi di Bly siano reali o frutto del delirio, quando è chiaro, invece, che James non intendeva fornire indizi per penetrare in questa ambiguità ma infittire la nebbia al confine tra realtà e allucinazione? Come scrisse Thomas Mann, l’ironia consiste nel dire questo e quello allo stesso tempo.
L’ironia di cui lei parla discende dalla ironia socratica di fronte alla verità – ossia dalla simulazione di un difetto di conoscenza rispetto alle questioni dibattute e dalla attribuzione all’altro – in questo caso il lettore – di maggiori competenze (che, di fatto, non ha)? O è figlia dell’ironia romantica, che non è disposta a prendere troppo sul serio la realtà, perché anch’essa può essere niente altro se non un’ombra dell’Io?
È figlia dell’ironia romantica. Come dice Schlegel, è «la forma del paradosso», una sintesi che trovo perfetta. Don Chisciotte è un paradosso ambulante, allo stesso tempo è pazzo e saggio, ecco l’ambiguità dalle quali si generano domande, che a loro volta muovono il processo della conoscenza. Cervantes è il primo a creare un genere al cuore del quale sta l’ironia. Almeno dall’inizio del secolo scorso, si è detto che ciò che definisce il Chischiotte è la prospettiva, che tutto dipende dal punto di osservazione: come ha scritto Leo Spitzer – «la realtà è suscettibile di varie interpretazioni». È una convinzione figlia del Romanticismo, e ripresa anche da Ortega y Gasset in un saggio famoso. Bene, io dico invece che la guida che ci fornisce Cervantes per interpretare correttamente la sua rivoluzione romanzesca non sta nel relativismo, né sta in una questione di prospettiva. Quel che ci dice è qualcosa di molto diverso, ossia che ci sono verità multiple, cangianti, contraddittorie e tutto il suo libro è costruito dall’inizio alla fine su questa ambiguità, su questa ironia. Non a caso, il Chisciotte non venne capito per molto tempo: la Spagna del XVII secolo e di gran pare del XVIII era dominata da verità dogmatiche, assolute, era stretta tra le granitiche certezze dell’Altare e quelle della Chiesa; ma anche nel resto dell’Europa, si sarebbero dovuti aspettare autori come Fielding o Diderot per trovare chi davvero apprezzasse il Chisciotte e magari lo imitasse.
Nel saggio titolato «Retorica delle cecità», che Paul de Man dedica al Derrida lettore di Rousseau, viene proposta una formula attraente: l’opera – dice il critico – è tutt’al più «un appello enigmatico alla comprensione». E ricorda il problema filosofico sollevato da ogni forma di critica letteraria: l’esistenza di «una differenza essenziale… tra la cecità dell’enunciato e la lucidità del significato». Ecco, lei crede che si potrebbe trasferire la questione del «punto cieco» anche al discorso critico?
Bellissima formula quella di Paul de Man, non ci avevo pensato. E, certamente, mi piacerebbe che questo mio saggio aprisse l’esplorazione di altri generi, oltre al romanzo. Ma, diversamente da quanto accade nel discorso critico, dove la questione della cecità posta da de Man è un problema, nel romanzo è una qualità, perché riprende l’ambivalenza consustanziale al mondo moderno, almeno nel corso di una certa tradizione, quella che parte dal Chisciotte e viene ripresa nel XX secolo, escludendo la stagione del realismo. Certamente, si può estendere questa questione a altri generi, come già aveva intuito György Lukács nella sua Teoria del romanzo. È evidente, per esempio, che la si ritrova in alcune opere teatrali: il protagonista assente di Aspettando Godot non rappresenta forse un punto cieco? Salvador Oliva, il mio maestro che ha tradotto tutto Shakespeare in catalano, sta scrivendo un libro per dimostrare come al centro di tutti i drammi del Bardo ci sia un punto cieco.
Oppure prendiamo Montaigne, dunque un altro contemporaneo di Cervantes: con lui nasce la forma moderna del saggio, che viene, appunto, da «saggiare», tastare il terreno. Diversamente da quanto avviene in un trattato filosofico, dove si pretende di spiegare tutto, il saggio va per tentativi: ora, quando mai Montaigne approda a conclusioni tassative e inequivocabili? Forse, come ha detto Faulkner con una immagine che mi piace moltissimo, al tempo di Cervantes c’era nell’aria «un polline di idee», e ciascuno a suo modo ne ha preso qualcosa; ma la differenza sta nel fatto che, diversamente da quanto avviene in altri generi letterari, nel romanzo il punto cieco è essenziale. D’altra parte, io non credo che esista una distinzione netta fra creazione e saggio critico. Basterebbe pensare a Borges, o ai saggi di Blanchot, che non a caso titola un suo lavoro famoso L’infinito intrattenimento. Contrariamente a quanto accade nel discorso filologico, nella critica le conclusioni restano aperte, ma questa apertura non identifica il suo ruolo, non sta qui la sua funzione. Nel romanzo invece sì, e quello che io vado cercando è proprio individuarne le aporie gnoseologiche, le domande che non hanno una sola risposta.
Secondo lei il «punto cieco» può essere spostato dal significato al significante, quando protagonista del senso di una frase diventa il suono delle parole? Per esempio come succede in Joyce, quando infila una sequenza di allitterazioni?
Sì, a patto di non confondere l’ambiguità di cui io parlo con la indeterminazione. In romanzi come Ulisse o come Finnengans Wake il punto cieco si sposta, spesso, sul significante, ma questo non necessariamente diventa un elemento costitutivo del libro.
In uno dei suo saggi lei cita come esempio di romanzo senza un punto cieco «Il Gattopardo», e dice che è frutto di un errore: se fosse stato l’editor di Tomasi di Lampedusa, infatti, gli avrebbe impedito di rendere manifesto il fatto che Concetta è stata il vero amore di Tancredi, il quale ha sposato Angelica solo per salvare i suoi interessi e quelli del casato. Insomma, non esiste la possibilità che un buon romanzo sia esplicito, giusto?
Giusto, perché altrimenti sottrarrebbe al lettore quello spazio che gli è necessario per compiere il suo lavoro. Del resto, lo stesso Lampedusa lo sapeva benissimo e lo ha scritto in un suo saggio su Stendhal dove elogia quelli che chiama «gli scrittori impliciti» e condanna «gli espliciti». Tuttavia, non vorrei apparire dogmatico, non dico che senza punto cieco non c’è grande romanzo. Tutta la tradizione realista, per esempio, lavora in una forma contraria, crea un mondo ermetico, dove il lettore entra a patto di credere a tutto ciò che viene detto. Flaubert non dichiara la finzione, pretende che quanto dice venga preso per la verità. Uno dei fattori che spiega il fallimento cui andò incontro Moby Dick è che, nonostante preceda Madame Bovary solo di cinque anni, non era un romanzo realista, non era un libro del suo tempo. Ci si chiese, ma cos’è questa roba? Un reportage sulle balene? Certo, anche il romanzo realista conosce l’ambiguità, e pratica la contraddittorietà, ma non ne fa il suo punto centrale, e chiede di entrare in un universo dove la finzione non è dichiarata, anzi si pretende che il lettore ci creda.
Lei non pensa che, soprattutto con l’estetica della ricezione, il ruolo del lettore e la legittimità delle più diverse interpretazioni del testo, siano stati enfatizzati?
Certamente, non tutte le interpretazioni sono valide, ma a partire dal rispetto della partitura l’interpretazione è libera; questo tuttavia non significa che sia legittima. Lichtenberg diceva che un libro è uno specchio: se lo guarda una scimmia, non potrà certo riflettere un apostolo. Resta il fatto che il romanzo, come la letteratura in generale, è fondato su un dialogo tra chi scrive e chi legge. Virginia Woolf rimproverò i suoi lettori per la loro umiltà, perché credevano – scrisse – di essere fatti di una pasta diversa da quella degli autori. E Valéry, pur non avendo potuto leggere Jauss, si spinse ancora oltre e disse che sono i lettori, con la loro «ingenuità armata», a fare i capolavori. Precisamente questo implica il punto cieco di un romanzo: che il lettore si prenda la responsabilità di vedere oltre l’autore, di cogliere ciò di cui questi – forse – non era nemmeno cosciente.

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