Una topografia dell’antifascismo
OLTRE IL NOVECENTO «Memoranda», l’ultimo libro della storica Antonella Tarpino, per Einaudi. Il fuoco del volume è costituito dal confronto tra ciò che resta del passato e il modo in cui è vissuto oggi. È una sorta di diario di viaggio nella propria memoria, completamente estraneo a qualsivoglia retorica imperativa sul «mai più!», sui «valori» (e la loro cosiddetta «crisi»). C’è la consapevolezza che la nostra epoca sia quella non solo del disincanto politico ma anche del mutamento radicale nel rapporto con la «fisicità» del passato
OLTRE IL NOVECENTO «Memoranda», l’ultimo libro della storica Antonella Tarpino, per Einaudi. Il fuoco del volume è costituito dal confronto tra ciò che resta del passato e il modo in cui è vissuto oggi. È una sorta di diario di viaggio nella propria memoria, completamente estraneo a qualsivoglia retorica imperativa sul «mai più!», sui «valori» (e la loro cosiddetta «crisi»). C’è la consapevolezza che la nostra epoca sia quella non solo del disincanto politico ma anche del mutamento radicale nel rapporto con la «fisicità» del passato
Lo scorrere del tempo non è quello che, dal passato, ci porta al presente bensì l’esatto opposto. In quanto non cerchiamo mai per davvero quel che avvenne ma, ostinatamente, ci interroghiamo su che cosa siamo divenuti, anche e soprattutto per il tramite di chi ci ha preceduti nonché per quelle sue stesse ragioni che oggi riposano in noi.
In questo sovrapporsi diacronico, tra i concreti trascorsi e la miseria del nostro presente, riposa senz’altro un’irrisolta nostalgia, quella che non riguarda ciò che fu ma quello che, nell’oggi, non riesce più a essere. Ovvero, a divenire come orizzonte. Poiché è vera nostalgia solo ciò che commemora un tempo mitico, tale in quanto non falsificato bensì in funzione del «principio speranza» (Ernst Bloch).
COSÌ LO STESSO BLOCH: «l’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono». Per l’appunto, qualcosa che si oppone, nella sua intima essenza, all’imprenditoria politica della paura, il ripetersi ossessivamente di una minaccia che arriva dal passato, che è invece la vera essenza dell’età del populismo che stiamo vivendo.
Nel ricordo della vita di qualsiasi essere umano c’è il suo tempo individuale, inteso sia come quell’arco di esperienze che ha vissuto personalmente, in quanto traiettoria esistenziale del tutto soggettiva, così come lo spazio concreto della sua azione individuale. Nell’uno come nell’altro caso si potrebbe declinare il tutto al plurale. Rimane il fatto, in sé dirompente, che nel ricordo che non muore, a parlarci del passato non è solo di chi fu protagonista di esso, nella sua materiale e umana presenza, ma ciò che fece e quindi rappresentò per i suoi contemporanei. La qual cosa – soprattutto – si rivela attraverso gli oggetti e i luoghi che, in qualche modo gli sono sopravvissuti. Poiché gli uni e gli altri portano impressi in sé l’impronta delle persone fisiche.
Antonella Tarpino, storica e saggista di lungo corso, abituata a lavorare sui luoghi così come sugli oggetti del passato, attraverso il suo ultimo lavoro intitolato Memoranda. Gli antifascisti raccontati dal loro quotidiano (Einaudi, pp. 194, euro 17) si adopera nella ricostruzione di una topografia della memoria antifascista per il tramite del trascorrere del tempo e il manifestarsi, a nuova consapevolezza, dei molteplici significati dei luoghi. Non è un approccio che pecchi di intellettualismo come, certuni, potrebbero invece essere sbrigativamente tentati di affermare. Semmai è uno sguardo completamente diverso da quelli altrimenti informati a presupposti esclusivamente politici. Ovvero storiografici. Il fuoco del volume, infatti, è costituito dal confronto tra ciò che resta del passato e il modo in cui è vissuto oggi, quindi dopo molto tempo. Scrive l’autrice: «è un play in the play incessante – nelle baite di Paraloup – tra il mondo di ieri, o anche dell’altro ieri, e l’oggi, segnato com’è da una cesura, violenta, fra le diverse temporalità: tra il tempo in fuga, istantaneo, del nostro presente e quello già remoto, che ne è alle origini».
ANCHE PER UNA TALE RAGIONE, il libro costituisce una sorta di diario di viaggio nella propria memoria, ossia nei modi, nei luoghi e nei tempi con i quali si rigenera la coscienza antifascista. Il testo, infatti, è completamente estraneo a qualsivoglia retorica imperativa sul «dovere della memoria», sul «mai più!», sui «valori» (e la loro cosiddetta «crisi»). Tarpino, semmai, è consapevole che la nostra epoca sia quella non solo del disincanto politico ma anche del mutamento radicale nel rapporto con la materialità, ossia la concreta fisicità del passato. Le due cose, peraltro, si tengono a braccetto. Nessun rimpianto di fondo, quindi, ma l’interrogarsi, in chiave semiotica, sul mutevole significato nel rapporto che ognuno di noi intrattiene con i componenti del tempo trascorso, soprattutto quand’essi siano gli indici di riferimento di passioni e affetti ancora insindacabili nell’oggi.
POICHÉ LA MEMORIA antifascista è costellata «di sottointesi elementi di sapere etico senza i quali è difficile comprendere anche l’eccezionalità della scelta partigiana». In questo senso, il viaggio tra tempi e luoghi serve soprattutto a capire ciò che Giorgio Bocca, con impagabile onestà intellettuale, ha definito come l’antifascismo che germina dentro lo stesso fascismo, figliandosi da esso: «c’era mentre ancora speravamo in conquiste d’oltremare, non era fuori del fascismo, ma un lento cammino dentro il fascismo». Ed ancora, non si trattava di una nuova ideologia da contrapporre a quella del regime, oramai in parte declinante, bensì «una crescente fatica e sofferenza per le menzogne».
Qualcosa, quindi, che andava ben oltre il ventennio mussoliniano, semmai interrogando il significato del sentirsi «italiani» non perché contro qualcosa o qualcuno bensì per divenire finalmente qualcosa. La coscienza delle circostanze – quindi – del reale disegno del proprio tempo, non nasceva da un’intelaiatura ideologia preesistente bensì dal concreto riscontro dell’incolmabile differenziale che si dava tra proclami e realtà, sogni di gloria e miseria quotidiana, orizzonte imperialista e ordinaria privazione.
Memoranda, da questo punto di vista, non rispetta nessun ordine cronologico. Non è il racconto della progressiva acquisizione di coscienza, come se un fenomeno qual era quello antifascista, e poi partigiano, nella guerra di Liberazione, potesse essere racchiuso e quindi raccontato in tali termini. Seguendo pertanto un percorso, al medesimo tempo, lineare e cumulativo. L’antifascismo – infatti – non era solo il rifiuto di quel «fascismo regime» che si presentava da subito come tale ma la ricerca di una diversa ragione di vita. Quella condizione che oggi chiamiamo con il nome di «identità». Non nazionale, non italiana, men che meno patriottica bensì personale: ovvero, quella cognizione di sé che collima con il proprio perimetro etico, disegnato dalla consapevolezza che ciò che si è derivi, anche e soprattutto, dalla cognizione dell’imprescindibilità degli altri.
Così un Immanuel Kant: «due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza». Una tale impostazione, non a caso, è completamente e radicalmente oppositiva a qualsivoglia fascismo. Di allora così come di oggi.
L’AUTRICE, a tale riguardo, compone un libro per nulla facile. Poiché si addentra nei meandri delle molte componenti, quindi delle tante contraddizioni, dell’antifascismo militante e quindi partigiano. Tali in quanto non immediatamente ed esclusivamente risolvibili su un piano politico e ideologico, come altrimenti gradiremmo fosse stato. Posto che si parla perlopiù di persone giunte, a un certo punto della loro esistenza, a una maturazione e a una consapevolezza che, diversamente, mai avrebbero potuto raggiungere.
Il fascismo, da questa prospettiva, fu vincolo come anche, paradossalmente, opportunità. Soprattutto per quella generazione che visse e maturò all’ombra della sua altrimenti tenace primazia. Da questo punto di vista, il libro fa non solo strame dell’illusorietà del bisogno di perdersi nelle collettive. In fondo, semmai, è come una sorta di handbook sul come cercarsi, attraverso le immagini dei luoghi, i reperti del tempo, i segni di chi ci ha preceduto. Non è cosa da poco, in fondo, se pensiamo invece al nostro smarrimento, quello che attraversa, con rabbia tanto ovattata quanto inane, il presente.
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