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Una Strategia per l’Italia dei paesini

Una Strategia per l’Italia dei paesini

Il fatto della settimana Oltre 13 milioni di persone vivono in piccoli comuni delle aree interne. Tra servizi che chiudono, popolazione che diminuisce, dissesti idrogeologici e patrimoni culturali abbandonati. Il piano dell’ex ministro Fabrizio Barca

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 29 novembre 2018

Nei primi dieci Comuni del Paese – che sono Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Catania – vivono 8,7 milioni di persone. Se si passa a considerare i primi venti, il numero totale dei residenti arriva quasi a 10,9 milioni. Questo significa che il 18 per cento della popolazione è concentrata nello 0,25 per cento dei Comuni.

Un dato che ne sottende un altro: se la popolazione media dei Comuni italiani, che sono in tutto 7.954, è pari a poco più di 7.600 abitanti, significa che ci sono una miriade di piccoli centri, molti dei quali si trovano su Alpi ed Appennini, e che presentano una densità abitativa ridotta. In questi Comuni – molti dei quali a rischio spopolamento – vivono ben 13,37 milioni di persone, cioè il 22 per cento della popolazione italiana. Le caratteristiche condivise da questi Comuni, che sono oltre 4mila, e occupano una superficie pari a quasi il 60 per cento di quella totale del Paese, riguardano il calo della popolazione, talora sotto la soglia critica, la riduzione dell’occupazione e dell’utilizzo del territorio, un’offerta locale calante di servizi pubblici e privati, «esternalità negative» per l’intera nazione, quali il dissesto idro-geologico e il degrado del patrimonio culturale e paesaggistico. Questi sono gli indicatori che rendono un territorio «area interna», e sono definiti in un documento che l’Italia ha trasmesso nel dicembre del 2013 alla Commissione europea, prima di avviare – nell’ambito delle politiche di coesione comunitarie – la Strategia Nazionale per le Aree Interne.

LA SNAI HA COME OBIETTIVO di invertire un trend demografico negativo che, nelle aree interne, appare inesorabile: – 4,4 per cento tra il 2001 e il 2011, – 2,3% tra il 2011 e il 2016 nei 1.077 Comuni in cui la Strategia sta operando al novembre del 2018. A questi si accompagna una presenza significativa di anziani, che rappresentano un quarto della popolazione (la media italiana degli over 65 è invece il 20%). Secondo l’economista Fabrizio Barca, che della Strategia è stato l’ideatore quand’era ministro per la Coesione territoriale nel governo Monti, «l’indebolimento delle aree interne non è l’inevitabile frutto di cambiamenti sistemici irresistibili, ma deriva in gran misura da politiche errate: riforme istituzionali cieche-ai-luoghi; investimenti pubblici che hanno assecondato il mantra (infondato) di un’inevitabile concentrazione nelle metropoli benefica per tutti; e infine sussidi pubblici elargiti a pioggia nei territori impoveriti dalle prime due politiche, per sopirne le tensioni sociali», come scrive in un intervento nel libro La voce dei sindaci delle aree interne, appena uscito per Rubbettino.

LA RISPOSTA A QUESTI PROBLEMI risiede in un nuovo modello di politica pubblica, frutto di un approccio «rivolto alle persone nei luoghi», o place-based. Cosa significa? Che si fonda sulla consapevolezza che gran parte della conoscenza necessaria per il riscatto sta nei territori, nelle persone che vi vivono, e che essa può produrre innovazione quando e se si confronta con la conoscenza esterna, con i centri globali di competenza. Per costruire queste politiche si dà il via a un confronto aperto, acceso, informato e ragionevole fra conoscenze e valori, capace di produrre visione e innovazione.

È QUESTO IL LAVORO IN CORSO in 72 aree interne del Paese, aree rarefatte (la densità media della popolazione è pari a un quinto di quella nazionale, 40 contro 200 abitanti per chilometro quadrato), per evitare che il mancato accesso ai servizi pubblici essenziali, le disuguaglianze crescenti, espasperino quella che Barca definisce la faglia città-campagna, i cui risultati si sono già visti negli Stati Uniti d’America: «L’impoverimento e la mortificazione , il senso di abbandono che esso ha prodotto in molti luoghi si è tradotto, si sta traducendo in una forte rabbia: intolleranza per la diversità, sfiducia nelle istituzioni e negli esperti, domanda di comunità chiuse, locali o nazionali, e di poteri forti che sanzionino» scrive nel libro per Rubbettino, curato da Sabrina Lucatelli (coordinatore della Strategia Nazionale Aree Interne) e da Francesco Monaco, che segue la Strategia nazionale aree interne per l’Anci.

SONO 30, A METÀ NOVEMBRE 2018, le aree interne italiane che hanno concluso la progettazione della propria Strategia d’area. L’importo finanziario complessivo per interventi di sviluppo locale e per migliorare l’accesso ai servizi già stanziato è pari a 528 milioni di euro, frutto di stanziamenti in legge di Stabilità e di fondi comunitari.

In ogni ambito – salute, istruzione, mobilità, sviluppo locale – ciò che la Snai prova a realizzare è innovazione, valorizzando le competenze emerse sul territorio, dove l’elaborazione di ogni «Strategia d’area» parte da numerosi incontri di scouting, che coinvolgono gli amministratori del territorio e cittadini, associazioni, cooperative. Tra gli esempi più significativi che declinano il concetto di «innovare per garantire l’accesso ai servizi pubblici nelle aree interne», ci sono gli infermieri di comunità, una delle iniziative pilota già partite in fase sperimentale in Liguria e Piemonte grazie a un progetto di cooperazione europea, o le ostetriche di comunità attivate in Abruzzo, per garantire un adeguato accompagnamento durante la gravidanza e alla nascita alle giovani coppie residenti nelle aree interne (questi ed altri esempi sono raccontanti nei box intorno a questo articolo).

SE È VERO CHE LA STRATEGIA NAZIONALE da sola non basta – «mentre lavoravamo alla Strategia ci hanno chiuso il Punto nascite, essendo sotto ai parametri dei 500 parti. Stiamo investendo per rilanciare il territorio e chiudere il Punto nascite significa togliere speranze ai giovani vanificando tutti i nostri sforzi. È stato devastante, scelta strategica sbagliata, come a dire non potete più nascere in montagna» ci ha detto Enrico Bini, sindaco di Castelnovo ne’ Monti, sull’Appennino reggiano – è altrettanto vero che essa dal 2014 ad oggi ha avuto un ruolo fondamentale, aprendo un dibattito approfondito sulle aree interne del Paese.
Marco Renzi, sindaco di Sestino, un comune aretino al confine con le Marche, nell’area interna Casentino-Valtiberina, lo spiega così: «Se dovessi presentare questa cosa ai miei bambini, a quelli a cui insegno farei un esempio tratto dalla scienza: la dorsale appenninica è l’ossatura del Paese, l’impalcatura che tiene insieme il corpo del nostro Paese. È il polmone verde, la via di fuga dall’ingorgo, il tempo lento per creatività ed innovazione. Non ne possiamo perciò fare a meno: sono luoghi dove c’è ancora un qualità di vita importante. E il primo progetto che va nella direzione di riconoscere questo ruolo è la Strategia nazionale aree interne».

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