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Una strage per la diga

Storie A Capiz, nelle Filippine, il 30 dicembre l’esercito ha massacrato nove leader della minoranza Tumandok. Che si oppone a una grande opera

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 28 gennaio 2021

Dopo anni di stallo, la fase due del Jalaur River Multipurpose Project ha preso il via nel 2019: è un progetto da oltre 11 miliardi di pesos filippini (circa 250 milioni di dollari) che deve costruire la più grande diga delle Filippine fuori da Luzon, l’isola dove si trova la capitale Manila. Si tratta della costruzione di un invaso alto 109 metri, con una diga di rifasamento di 38,5 metri e una di raccolta di 10 cui si affianca un canale di 80 chilometri. Lo scopo è la generazione di nuove aree per l’irrigazione e la riabilitazione del sistema di irrigazione esistente. Una volta completato, il JRMP II – spiega un resoconto del magazine locale PanayNews – dovrebbe raddoppiare la produzione annuale di riso dell’area portandola a 300 mila tonnellate.

LA DIGA AGGREDISCE IL FIUME JALAUR, il secondo più lungo dell’isola filippina di Panay, con una lunghezza totale di 141 km e il secondo più grande per bacino di drenaggio. Il JRMP ha una storia lunga e sofferta, perché il primo progetto era partito negli anni Sessanta ma la sua prima fase è stata completata solo negli anni Ottanta e la seconda, che è ormai operativa, è stata ritardata per mancanza di fondi. Ma non è solo una storia di soldi e ritardi. La zona ideale per la diga si trova a Capiz dove il fiume si allarga ed è li che si concentrano i lavori. È territorio Tumandok, una comunità indigena molto battagliera fin dall’epoca della ultra trentennale dittatura di Ferdinando Marcos se non addirittura prima, quando a Panay arrivò la corona di Spagna con i suoi appetiti agrari. Ed è proprio a Capiz che, alla fine dell’anno scorso, si consuma una strage di leader comunitari. Una strage ancora impunita e che riconduce alle controversie sulla diga e all’opposizione di chi abita lungo quel tratto di fiume perché imbrigliarlo significa sommergere villaggi, spostare famiglie, disperdere il patrimonio Tumandk.

DUE GIORNI PRIMA CHE INIZI il nuovo anno, il 30 dicembre, esercito e polizia organizzano un operativo di controguerriglia contro, dicono gli alti comandi, i militanti del New People’s Army, braccio armato del Partito comunista delle Filippine (fuorilegge). Benché gli attivisti comunitari si proclamino innocenti e le famiglie neghino sia l’appartenenza al gruppo armato sia che i loro congiunti avessero armi, l’operativo diventa esecuzione: nove le vittime sul terreno e decine gli arresti. Secondo le famiglie i nove civili, uccisi anche se disarmati, prima di essere ammazzati sarebbero stati anche torturati. La polizia sostiene invece il contrario e cioè che si trattasse di militanti del Npa e che avessero aperto il fuoco contro gli agenti. La vicenda scatena reazioni non solo nelle Filippine ma rimane abbastanza sotto traccia. E la notizia non va molto oltre la cronaca locale. I militari se la cavano con un’inchiesta interna mentre laici, parlamentari, associazioni e la Chiesa cattolica (forte nel Paese e apertamente schierata contro il regime del presidente Duterte) chiedono un’indagine indipendente e preparano anzi una missione di verifica in loco anche se la polizia vieta di raggiungere il luogo del delitto.

CHE LA VICENDA SIA LEGATA alla resistenza opposta dai Tumandok al progetto della diga non lo dice solo la logica. I Tumandok sono una comunità con una precisa identità culturale che ha una lunga storia di resistenza come spiega il padre camilliano Aris Miranda: «A Panay esiste un costante accaparramento delle terre indigene perché l’isola è ricca di risorse naturali, agricole e minerarie. Investitori filippini e stranieri hanno sempre cercato di prendersi la terra delle popolazioni indigene». I Tumandok sono una ceppo locale di circa 95 mila individui e «furono tra i primi a opporsi alla conquista spagnola e ancora tra i primi a lottare contro le lobby sostenute dal dittatore Ferdinando Marcos», che trasformarono Panay in un’isola-paradiso per il latifondo grazie al terreno favorevole alle coltura da piantagione.

LA CHIESA NON SI TIRA INDIETRO: il 18 gennaio scorso l’agenzia vaticana Fides ha pubblicato una lettera aperta che porta la firma di otto vescovi, tra i quali il Cardinale Jose Advincula, arcivescovo di Capiz. I toni e le richieste sono chiari: «Un’indagine approfondita da parte di un ente indipendente per accertare cosa sia realmente accaduto il 30 dicembre 2020; la cessazione dell’intervento militare sulle comunità indigene, in modo che i nostri fratelli e sorelle, i Tumandok, possano tornare a casa e vivere di nuovo in pace; che la polizia e l’esercito seguano coscienziosamente gli standard etici nelle regole di ingaggio durante operazioni di polizia o militari, portando telecamere in tutte le operazioni per proteggersi da false accuse e per proteggere i civili dall’uso della violenza o dall’abuso di potere». In Europa si muove la diaspora, in molti casi con forti legami col mondo cattolico come nel caso della Promotion of the Church Peoples Response (PCPR Europe), che ha pubblicato un messaggio di cordoglio e solidarietà con le famiglie Tumandok e ha organizzato una manifestazione via zoom in appoggio alla missione di verifica che laici e religiosi stanno preparando. Ma si muovono anche i laici: in Italia il Comitato di amicizia italo-filippino, nato alcuni anni fa e che fa parte di una sezione europea appena creata – che è stata ufficialmente lanciata sabato 23 gennaio – della coalizione globale Ichrp (International Coalition Human Rights in Philippines). Nei vari Paesi vi aderiscono sia filippini della diaspora sia cittadini dei singoli Paesi.

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