Una storia minore del Novecento
MEMORIA La vita di Aldo Togliatti nel libro «Un’altra parte del mondo» di Massimo Cirri (Feltrinelli)
MEMORIA La vita di Aldo Togliatti nel libro «Un’altra parte del mondo» di Massimo Cirri (Feltrinelli)
Quella di Aldo Togliatti, figlio di Palmiro, è una storia misconosciuta, perché da sempre nascosta nelle pieghe e nell’ombra delle biografie del padre. È solo di Palmiro Togliatti che gli storici si sono sempre occupati; mai di Aldo, detto Aldino, se non indirettamente. Ma in fondo si capisce: la biografia di Palmiro Togliatti è parte integrante non solo della storia del comunismo, ma anche di un secolo tout court; quella di suo figlio, invece, è una storia fuori dalla ribalta, privata, intima. Occorreva dunque sensibilità per scovarla e recuperarla: lo ha fatto Massimo Cirri, che ora con altrettanta delicatezza ce la porge in un libro da poco uscito da Feltrinelli, Un’altra parte del mondo (pp. 436, euro 18). E così per la prima volta, quantomeno in una dimensione pubblica, la storia di Aldo Togliatti assume una dignità di racconto autonoma, un valore in se stessa.
Naturalmente anche la biografia di Aldo, per derivazione da quella del padre, incrocia grandi vicende: la nascita del Pci, i rapporti fra Togliatti e Stalin, la guerra civile spagnola e quella mondiale, il dopoguerra italiano ed europeo. Ma vicende e personaggi rimangono sullo sfondo, da dove emergono solo nella misura in cui abbiano inciso in concreto sul destino di Aldo, perché questo è ciò che interessa a Cirri: il carattere, l’anima, il profilo umano ed esistenziale delle cose (non a caso Cirri è innanzitutto uno psicologo che opera sul campo, nei servizi pubblici di salute mentale, prima ancora di essere uno scrittore, un giornalista e un autore teatrale).
È una storia triste, quella di Aldo Togliatti, relegata nell’ombra anche mentre si svolgeva; e segnata costantemente dalla marginalità. Nato a Roma nel 1925, dei suoi quasi ottantasei anni di vita Aldo trascorre i primi venti lontano dall’Italia, fra Parigi e l’Unione Sovietica, e perlopiù lontano anche dal padre e dalla madre, Rita Montagnana. Dei circa dieci anni in Unione Sovietica, tre trascorrono nel collegio di Ivanovo, a trecento chilometri da Mosca: qui vanno a scuola i figli dei dirigenti comunisti di tutto il mondo, e qui appunto viene portato anche Aldo nel 1936, quando i genitori devono partire per la Spagna. Lo rassicurano, pare, che torneranno presto, fra tre o quattro settimane, e torneranno invece solo due anni più tardi.
Dopo Ivanovo, altri anni a Mosca; e solo nel 1945, a guerra finita, il ritorno in Italia. Ma tutto nel frattempo è cambiato, in famiglia e non solo nel Paese: Palmiro Togliatti sta ufficializzando la sua nuova unione con Nilde Iotti e sta andando a vivere con lei (insieme adotteranno una bambina, Marisa Malagoli). Aldo rimane con la madre, Rita, con la quale andrà ad abitare in un piccolo appartamento nella periferia di Torino, dove rimarrà fino al 1979; e, nonostante una laurea in ingegneria e qualche esperienza all’indomani del suo ritorno in Italia, non lavorerà più. Uscirà sempre poco di casa e sempre solo con la madre, sempre camminandole alcuni passi più avanti.
Nel 1979 Rita muore, dopo che Palmiro era già morto nel 1964, e Aldo – che si sente «smarrito» – fa perdere le sue tracce per alcuni mesi. I parenti lo rintracciano a Le Havre, dove pare che avrebbe voluto imbarcarsi per l’America (dallo stesso porto dal quale tante volte erano partiti anche suo padre e sua madre); e lo ricoverano a Villa Igea, l’ospedale psichiatrico di Modena, dove morirà nel 2011 senza mai più esserne uscito.
Ma chi era Aldo Togliatti, davvero? Le diagnosi cliniche (a cominciare da quella di Mario Spallone, il medico personale del padre) lo dicevano schizofrenico; e tutti erano e sono d’accordo sul fatto che fosse una persona molto timida, gentile, silenziosa, solitaria. Lieve ed elegante. Ma Cirri non si accontenta: indaga al di là dei dati biografici, attraverso tutte le fonti che gli sia dato di consultare (dalle lettere scambiate con il padre e con la madre alle testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto), e su queste basi prova a compiere supposizioni, a sua volta con gentilezza e rispettosa, quasi affettuosa circospezione («ci fa piacere pensare», «ci permettiamo di pensare», «ci chiediamo», «facciamo un’ipotesi»).
E forse, se non ci si sbaglia, la supposizione fondamentale è che la verità fosse più semplice e perfino più banale rispetto a quella ufficiale: e cioè che Aldo Togliatti soffrisse semplicemente di assenze. Il suo nucleo doveva essere fragile, e qualcosa di questo nucleo fragile doveva essersi rotto a partire dalla solitudine nella quale lo avevano lasciato i genitori, a Ivanovo; per poi creparsi ulteriormente nel tempo, mano a mano che si inaridivano i rapporti con il padre (il quale peraltro non avrebbe mai smesso di provare amore e preoccupazione per il figlio). Ma forse, sembra dire Cirri, i suoi vuoti potevano essere almeno in parte riempiti. Il libro si chiude sulle parole di un biglietto di un soldato al fronte, trovato da Vasilij Grossman in occasione di una sua corrispondenza di guerra: «Babbo, ti prego, vieni qui». «Ecco, solo questo», aggiunge Cirri.
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