Visioni

Una storia d’Italia nel fuoricampo

Una storia d’Italia  nel fuoricampoCave di Lipari, 1952 – Cecilia Mangini

Fotografia La mostra «Visioni e passioni» raccoglie gli scatti realizzati da Cecilia Mangini tra il 1952 e il 1965. Le cave di Lipari, il sud, Firenze, Milano. Il viaggio in un Paese tra il dopoguerra e la «modernità»

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 23 giugno 2017

In una delle immagini che corredano il catalogo della mostra «Visioni e Passioni» c’è una donna vestita di scuro, i capelli cortissimi e la sigaretta in mano: è lei, Cecilia Mangini, agli inizi degli anni Sessanta, sorride con eleganza affermando già nella sua fisicità una presa di posizione sul mondo. A cominciare dall’immagine femminile, che certo non corrisponde a quella del boom italiano, con cui sfida le «convenzioni» di un Paese profondamente maschile sulle questioni dei diritti, sui ruoli. E lei, Cecilia, questo Paese aveva invece deciso di raccontarlo capovolgendo ancora di più le «regole». Faceva cinema, faceva reportage fotografici, puntava il suo obiettivo su quanto si preferiva rimanesse oscuro: le province, il sud, il lavoro, lo sfruttamento, le periferie, e tutto luccicava meno di quanto la patina della ricostruzione post-bellica ostentasse.

 

 

«Sono stata una fotografa di strada, per me fotografare è stato l’allenamento alla rapidità della cattura dell’immagine. Ladri di biciclette mi ha insegnato che l’immagine o la trovi subito o non la trovi più» scrive la regista sul catalogo che accompagna la mostra (edizionin Erratacorrige&Big Sur). «Visioni e passioni» – a Roma, al Museo delle arti e tradizioni popolari fino al 10 settembre – raccoglie gli scatti realizzati dal 1952 al 1965, un lungo viaggio in Italia (ma c’è anche una sezione sul Vietnam) tra squarci inaspettati e illuminazioni in bianco e nero.

 

 

Eccoci così a Lipari, in quello che sarà il primo reportage sulle cave di pietra pomice. È il 1952, l’obiettivo di Cecilia Mangini «documenta» il lavoro durissimo sotto al sole che acceca di blu del mare e del bianco della pietra; un paesaggio surreale in cui si muovo uomini e donne e anche qualche ragazzino. A mani nude, in calzoncini, protetti solo da un cappello o da stracci sulla testa affrontano la fatica,il calore, le sostanze tossiche; la paga è bassissima, l’attrezzatura rudimentale. Mangini ne restituisce la solitudine, la lotta impari in quei luoghi remoti, dimenticati, che pure insieme alla violenza rimandano una bellezza. Senza retorica né sottolineature modula nel bianco e nero ogni colore, quasi a condurre la scala cromatica verso inediti salti.

 

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Il sud italiano nella stessa estate sono bimbe con le gambe magre appoggiate a un muro bianco,i ragazzini che a Lipari remano. A Mola, qualche anno dopo (1958) Maria davanti alla sua casetta con gli olivi, ha un grembiule a fiori e lo sguardo lontano di chi sa di essere dimenticato. Nel 1960, la Fiera del Levante a Bari accarezza i sogni della modernità. Ma è davvero così?

 

 

 

 

 

Il viaggio continua. Firenze (i sopralluoghi per il documentario Firenze di Pratolini) Milano e la sua periferia: la nebbia , le attese degli operai, i mercati in strada. È l’Italia di ogni giorno, l’Italia dove ci sono ancora le macerie dei bombardamenti (una foto a Milano nel 1955 è impressionante), un Paese di contraddizioni, silenzi, rimossi che continuerà a «dimenticare» una parte di sé come quel sud che Mangini invece narra.

 

 

Ma l’Italia in quegli anni è anche quella del cinema, Jules Dassin e Paolo Stoppa sul set di La legge (1958), o ancora Sylvia Koscina nei camerini di Le fatiche di Ercole (1957).
Ci sono poi gli amici come Pasolini, con cui Mangini ha lavorato, c’è Elsa Morante coi suoi gatti, Fellini alla macchina da scrivere, Satyajit Ray a Venezia nel 1957: anche questa è l’Italia. Mangini cerca la realtà. come farà poi da documentarista, e come nei film predilige una narrazione «obliqua», che costruisce punti di vista eccentrici nella composizione dell’inquadratura e nella ricerca delle relazioni tra ognuno dei suoi soggetti senza separare luoghi e persone. Tutto dice qualcosa, tutto è segno di quel tempo, di una Storia, di una condizione e, forse, di un conflitto. La vità non come è ma come deve essere raccontata.

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