Dopo aver ricostruito, con meticolosa lucidità, sia le vicende relative al cosiddetto «protocollo segreto», vale a dire al documento che, nel 1939, venne aggiunto di nascosto al patto Molotov-Ribbentrop, sia l’opera di falsificazione che ne è stata fatta soprattutto in ambito politico, la storica Antonella Salomoni, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna, propone all’attenzione del lettore un tema tanto complesso quanto appassionante: l’estensione e la profondità, la frequenza e la radicalità dei fenomeni iconoclastici.

Nel suo saggio, dal titolo Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato, edito dal Mulino (pp. 202, euro 22,00) la studiosa esamina appunto – a cento anni dalla morte – il caso del fondatore dell’Unione sovietica analizzando come, nel corso dei decenni e in relazione ai cambiamenti epocali, sia mutato in maniera assai spiccata il rapporto con il suo corpo e le sue immagini.

L’AUTRICE DÀ INIZIO alla propria ricerca osservando come le spoglie di Lenin, per volontà di Stalin, siano state esposte alla venerazione dei cittadini nel Mausoleo situato sulla piazza Rossa a Mosca; nel frattempo le sue statue – di pietra o bronzo – hanno guardato dall’alto i popoli del blocco sovietico: ci si riferisce alle migliaia di monumenti che furono eretti, ovunque, nello sterminato territorio delle Repubbliche Socialiste e in quello dei paesi satelliti.

Ma cosa è accaduto dopo il 1989? Il corpo – nota la storica -, una volta perduta la tipica aura della reliquia, è rimasto in mostra a Mosca, davanti al Cremlino, mentre le statue sono state in gran parte rimosse, distrutte, vandalizzate, demolite e smontate sebbene, in qualche circostanza, siano state ricollocate sui loro piedistalli dagli occupanti durante i primi mesi della guerra in Ucraina.

Antonella Salomoni individua, al riguardo, alcuni tratti distintivi delle azioni iconoclastiche: la casualità della presenza in situ, senza apparente connessione con l’adozione di atti istituzionali; la violenza esercitata nei confronti dell’emblema di un potere che la comunità considera illegittimo; la spinta alla restaurazione dei diritti nazionali attraverso la volontà del popolo. Tutto ciò ha ovviamente alla base il desiderio di lasciarsi alle spalle la tradizione simbolica del totalitarismo sovietico.

Occorre poi ricordare come i gesti iconoclastici non si limitino a prendere di mira solo le immagini ma siano anche volti a censurare e distruggere testi, demolire edifici, rimuovere targhe e iscrizioni: sarà sufficiente citare, in proposito, la rimozione – effettuata a Budapest nel 2017 – della statua di György Lukács alla quale è seguita poi la chiusura degli archivi del filosofo.
Le ondate iconoclastiche hanno costituito, insomma, un processo che ha riguardato l’intero spazio post sovietico e che appare ancora lungi dall’essersi concluso. Sottolinea inoltre l’autrice: «È anche un’esperienza che impone di riflettere sulle differenze tra paesi, nel quadro di disomogenee transizioni verso la democrazia; di distinguere tra campagne coordinate a livello centrale, promosse per iniziativa di autorità locali o nate su pressione della “folla”; di valutare con attenzione la tipologia dei manufatti; di determinare il peso delle specificità nazionali su iconoclastia, vandalismo o distruzione sporadica».

LA STUDIOSA conclude questo suo saggio con una considerazione: i monumenti, più che venire distrutti o conservati, andrebbero «alterati e risignificati» affinché siano in grado di rendere visibile una cesura, lo iato che è stato provocato dal succedersi delle epoche e degli avvenimenti. Resterebbero così depositari di una notevole ricchezza storico-culturale, ingente patrimonio a disposizione dei contemporanei e dei posteri.