Il libro di Serena Bortone, A te vicino così dolce (Rizzoli, pp. 304, euro 18,50; sarà presentato al festival Scenari, Modica, il 6 luglio) è un atto d’amore concreto, il risultato eccellente di un debito che aveva: restituire dignità, attraverso conoscenza e comprensione, alla vita di una persona che, al momento dell’incontro nella vita reale, l’autrice era troppo giovane per accogliere. Il fatto che Bortone abbia sentito per tutta la vita questo debito basta a dirci della sua tempra umana, peraltro resa recentemente esplicita dalla denuncia della censura Rai al monologo di Antonio Scurati sull’antifascismo. Ma c’è di più. C’è un libro sorprendente, che inizia tratteggiando a pennello leggero la vita a Roma Nord negli anni dell’edonismo reaganiano, l’esistenza in quei branchi di ragazzi che vivono incoscienti del privilegio, ironizzando sulla «fauna» che nel fine settimana raggiunge il loro habitat, provenendo dalle periferie. E vivono pure, però, lo splendore dell’amicizia adolescenziale.

VISTA DA OGGI, comunque sia stata, quella stagione della vita fa piangere l’adulta per la perdita irrimediabile di quell’incanto, perdita che l’autrice teme e prevede già da ragazza, velando di una strana malinconia l’esplosione di luci della propria stessa gioia, quasi un filtro di tempo futuro già calato sul tempo presente e riassunto nel Todo cambia di Mercedes Sosa, versione accessibile del panta rei di Eraclito. Tutto scorre e, perciò, tutto cambia. Pure quello che si credeva eterno, perché Serena, in quegli anni, ha un’amica del cuore, Vittoria, la persona con la quale da ragazzi si condivide il pane della vita fino alle briciole e si crede che così sarà sempre, oltre la fine dei mondi.

VITTORIA S’INNAMORA di Paolo e «affondava i suoi occhi neri nel viso e nel corpo di lui, come una mistica del medioevo di fronte al crocefisso». L’immagine rende viva l’adorazione senza pensiero del primo amore. Ma Paolo è nato donna. Forse oggi non abbiamo più bisogno dell’avversativa ma, forse potremmo semplicemente riportare il dato che Paolo è nato donna. Invece, in quegli anni, dal momento di questa scoperta si dipana una trama fatta di scandalo, fiotti di lacrime, mezze verità, visite psichiatriche, diagnosi efferate e tradimenti. In quegli anni ci si crede liberi e si vive, piuttosto, nell’ipocrisia alla quale costringe il comandamento sociale del divertimento a ogni costo, anche a costo del contatto umano, anche a prezzo della verità. Chi non è all’altezza del divertimento viene espulso dal circolo della gioia, non è compreso, nel doppio senso che la parola comprensione possiede.

Il libro scivola lentamente verso la faccia in ombra della luna, la carta moschicida di quegli anni: «Non avevamo ideologie, e forse neanche ideali. Le paure erano collettive e totalizzanti: la bomba atomica, le radiazioni nucleari, l’Aids». Sul fondo della messa in scena di quella felicità, lampeggiano i volti delle vittime incolpevoli. Paolo, in questo caso, allora complesso e indecifrabile come un fantasma, e altrettanto tormentato e dolce, Paolo che strappa a strattoni i capelli lunghi dalla propria foto di bambina.

L’autrice ci insegna con che penna leggera si possano scrivere cose dure e pesanti, quando l’intelligenza è tale da non concepire nulla di estraneo alla così detta normalità, quando il principio di normalità si allarga a includere tutto ciò che ha diritto di esistere semplicemente perché l’evidenza dimostra che esiste. Il cuore del libro sta nell’affermazione che «giudicare è un esercizio di viltà. Perché giudica solo chi non ha il coraggio di comprendere». E allora questo libro è un analitico esercizio di comprensione. Paolo è sempre lo stesso, ma lo sguardo di tutti su di lui è cambiato, perché negli scherzi, come negli insulti, «il modello era uno solo, quello maschile eterosessuale». E allora questo libro, che prende il titolo da un verso di Saffo, è anche il promemoria del dolore che costano le conquiste sociali.

Sarebbe bello e giusto, ogni volta che adoperiamo l’attrezzo nobile di una qualunque libertà, rivolgere un pensiero di gratitudine a quelli che hanno aperto la strada, strappandosi le mani sui rovi del pregiudizio. Quei pionieri non hanno forse lottato per noi, hanno lottato per la dignità delle proprie vite, per il proprio riconoscimento sociale, ma ora siamo più liberi grazie alla loro avanguardistica, ostinata volontà di non somigliare ad altro che a sé stessi.