Lotta, galera, fuga, esilio, lotta, galera, fuga, esilio, rivoluzione. Se c’è un filo a legare cinquanta vite di uomini e donne che si sono dipanate per due secoli e mezzo, a ogni latitudine, è nella varia combinazione di questi ingredienti e nella comune adesione all’anarchia. «Han gettato testardi/ La vita alla malora», cantava Leo Ferré in Les anachistes incisa nel ’69, più o meno quando il sedicenne Pietro Spica cominciava a mischiare arte e anarchia proprio a Parigi, tra la Montmartre dei pittori e il Muro dei Federati, i 147 martiri della Comune, a Père Lachaise, nello zaino Socialismo, anarchismo, sindacalismo di Bertrand Russell.

ERA IL PRIMO di una serie di viaggi in cui alternerà visite ai grandi musei e pellegrinaggi nei luoghi simbolo della battaglia libertaria. Poi, per tutta la vita ha dipinto, Pietro Spica, esponendo con successo in varie città del mondo. Suo zio gli scrisse nel 1986: «Nei tuoi quadri io ritrovo quell’atmosfera sospesa e tesa che c’è in certi paesi del mediterraneo e dell’America del Sud, che tu anche conosci, ma c’è qualcosa di più magico, di più sognato, più sottile». Suo zio era Gianni Dova, uno dei fondatori dello spazialismo.
L’ultimo progetto di Spica, morto nel settembre scorso, è dedicato a chi gli ha insegnato a viaggiare in «direzione ostinata e contraria». Sono le Storie d’anarchia per 50 ritratti. Racconto corale di immagini, sogni, canzoni e storie (Shake edizioni, pp.304, euro 19), una sorta di Spoon River libertaria con note biografiche, redatte da Lorenzo Pezzica, archivista e storico, che le ha corredate con citazioni e canti, tutte «anarchicamente» disposte in ordine alfabetico per nome anziché per cognome.

IL RISULTATO è una serie di tracce d’utopia, china su cartoncino, disseminate e poi ritrovate più in là, nel corso della lettura e che fanno immaginare altri libri possibili magari con l’ultima lettera di Emma Goldman a Zinoviev per scongiurare la macelleria a Kronstadt, l’elogio funebre di Camillo Berneri per Gramsci poco prima di essere trucidato lui stesso dalla Gpu, l’ultima lettera di Cafiero a Engels o una lettura di carte come faceva Leda Rafanelli a beneficio dei marinai nel porto di Genova.

VICENDE che parlano di ferite ancora aperte – la guerra di Spagna, la Comune, la Rivoluzione d’ottobre, la polemica col marxismo – ma in un tempo che sembra somigliare all’epoca che descrisse Maria Luisa Berneri, «di compromessi, di mezze misure, di male minore. I visionari vengon derisi o disprezzati e gli ’uomini pratici’ governano la nostra vita».
Al contrario, i «cinquanta» erano tra quelli che hanno saputo dar vita agli «orgasmi della storia» – felice conio dello scrittore Yves Fremion – rivolte, sommosse, rivoluzioni, esperimenti radicali di nuove relazioni tra le persone che non contemplassero il bisogno di «sceriffi vescovi conti papi e papesse». L’«uomo più rosso d’Italia», la «donna più pericolosa d’America», e sovversivi, agitatori, rapinatori, combattenti, pensatori, educatori, capaci di immaginare e praticare il proprio «tempo delle ciliegie» contro ogni dominio di classe, genere, razza e anche a dispetto della disillusione provocata dalla degenerazione delle rivoluzioni.

IL PIÙ ANTICO è William Godwin – classe 1756, a cui la figlia Mary Shelley dedicò il suo Frankenstein – che scoprì che «ciascuno è abbastanza saggio da governarsi da solo». Il più contemporaneo Paolo Finzi che s’è lasciato investire da un treno alla stazione di Forlì il 20 luglio del 2020. Era stato il fondatore di A/Rivista Anarchica. Nel cestino della carta straccia, sua figlia troverà appallottolata una lettera di commiato: «Curioso, ho dedicato un po’ tutta la vita a fare propaganda anarchica, a creare anarchici e anarchiche, e poi ne elimino uno… e non dei peggiori».

OGNI VOCE è prima di tutto un ritratto con linee e motivi che richiamano sia il muralismo sia il fumetto underground di tante fanzine ciclinprop. Ogni personaggio al bavero ostenta la spilletta con la A cerchiata ma quasi nessuno di loro, in verità, sapeva nulla di quel simbolo. Avrebbe colonizzato i muri solo dopo il Sessantotto, inventata a Parigi ma lanciata nei ciclostilati prodotti dalla Gioventù libertaria di Milano. A inciderla con l’aiuto di un bicchiere capovolto fu Amedeo Bertolo che, solo qualche anno prima, era nel gruppo che rapì il viceconsole spagnolo per salvare la vita a un giovanissimo anarchico condannato a morte dal franchismo.