«Qual palombaro nel suo scafandro/o qual nevrotico nel suo tic,/ mi rifugio in te, Alejandra/ Pizarnik./O tu, agile balandra,/ o letterario pic nic,/con la tua aria da salamandra/modellata da Lalique! O Alejandra,/o mia Cassandra/chic!».
Citata dalla grande studiosa argentina Sylvia Molloy in un saggio su Pizarnik, cui era unita da un’amicizia nata nei loro anni parigini, la buffa poesiola è opera di Manuel Mujica Lainez che la dedicò ad Alejandra nel 1966, quando le assegnarono il Premio nazionale di poesia per il volume di versi Los trabajos y las noches. Scrittore e critico raffinato, nonché uomo di eccelsa eleganza, Mujica Lainez può sembrare l’antitesi di colei che, simile a un ragazzaccio incline al turpiloquio e sprofondato in maglioni sformati e logori giacconi da marinaio, si sforzava di apparire come l’ultima incarnazione dei poeti «maledetti».

CHE I DUE SI APPREZZASSERO a vicenda, però, lo testimoniano le lettere inserite nell’epistolario di Pizarnik curato da Cristina Piña e Ivonne Bordelois (Lumen 2017), ed è sempre Molloy ad affermare che l’esteta Mujica e la trasgressiva Alejandra avevano molto in comune: in quanto dediti «alla costruzione del corpo come oggetto culturale leggibile» (e quindi parte integrante della propria opera), erano entrambi dei dandy, dei poseurs, sempre che si utilizzi il termine «posa» come sinonimo di «performance dell’io», sia testuale che corporale.
La «Cassandra chic» evocata da Muijca Lainez sembra, inoltre, coincidere ben poco con la consueta immagine di Pizarnik, morta suicida il 25 settembre del 1972 nella Buenos Aires dov’era nata trentasei anni prima, e tutt’ora circondata da un’aura di follia, fragilità e sofferenza: un mito oscuro quanto riduttivo, che contribuisce a tramandare la figuretta di una tragica «bambina perduta» e insonne, alle prese con mostri, incubi, solitudini, disamori, messa ora in discussione, una volta per tutte, dalla biografia proposta nel cinquantesimo anniversario della morte (Alejandra Pizarnik. Biografía de un mito, Lumen, pp. 427, euro 18,67), da Cristina Piña e Patricia Venti, cui già si devono studi approfonditi su quella che ancora oggi è la più celebre e amata esponente della poesia argentina novecentesca.
Il libro fa seguito a una prima e relativamente scarna biografia di Pizarnik scritta trent’anni fa da Piña, che all’epoca aveva dovuto misurarsi con troppi silenzi, senza poter attingere alla consistente mole di materiali ora custoditi all’Università di Princeton; ampliato a partire da una impressionante documentazione – dalla versione integrale dei diari (apparsi a distanza di anni presso Lumen, in due versioni differenti e comunque incomplete, che hanno suscitato notevoli polemiche) a lettere finalmente recuperate, alle testimonianze di familiari e amici – il nuovo testo mostra come Pizarnik sia un universo in espansione che continua a riservare sorprese.

PIÑA E VENTI FANNO LUCE su molti aspetti della breve esistenza di Alejandra, nata in una famiglia ebrei russi in fuga da un’Europa dove i campi di sterminio avrebbero presto inghiottito i loro parenti, e approdati in un’Argentina tumultuosa e non del tutto aliena dall’antisemitismo, dove riuscirono a prosperare e a garantire alle figlie un’ottima istruzione. Bambina che la sorella Myriam ricorda come «gioiosa» e amatissima, Alejandra divenne un’adolescente difficile, scontenta del proprio aspetto e in conflitto perpetuo con i genitori, ai quali attribuirà una implacabile incomprensione che la nuova biografia, però, sembra smentire.

IRREQUIETA, capricciosa, ingenua, esasperante, aveva tuttavia chiaro, sin da allora, che «voleva la gloria» ed era destinata «a una vita eccezionale», realizzata non nel matrimonio o nella maternità, come ci si aspettava da qualsiasi donna, ma interamente votata alla poesia e a un autentico corpo a corpo con il linguaggio: una vita in cui scrivere significava essere, trovarsi, definirsi.
Dalle incertezze di un apprendistato trascorso a Buenos Aires tra il 1955 e il 1960, che la vede cambiare nome (da Flora, quello ricevuto alla nascita, a uno soltanto suo, Alejandra), abbandonare gli studi universitari, stringere una quantità di amicizie tra artisti e intellettuali in vista e pubblicare le prime quattro raccolte di versi, Pizarnik procede a una sempre più consapevole e decisa costruzione di sé come poeta e come personaggio (l’importanza del suo lato «performativo e teatrale» non è sottolineata soltanto da Molloy, ma da anche da altri studiosi e dalle due biografe), finché un soggiorno parigino di quattro anni – i più felici, segnati da strette relazioni con personaggi come Julio Cortázar e Octavio Paz – e libri ormai prossimi a un’essenziale perfezione le conferiscono, al ritorno in patria, un crescente prestigio.

È IL RIENTRO a Buenos Aires, però, a segnare l’inizio di un periodo inquieto, tra abuso di alcol e di farmaci, ricoveri in una clinica per malattie mentali, tentativi di suicidio e notti sempre più sfrenate, mentre la sua poesia si fa sempre più rarefatta e i diari (in piccola parte da lei rivisti e pubblicati proprio in quegli anni) crescono e si dilatano, fin quasi a diventare un romanzo autobiografico, quello che aveva sempre progettato di scrivere senza riuscirci. Ed è allora che Pizarnik si cimenta sempre più spesso con la prosa, in buona parte pubblicata postuma: racconti brevi e brevissimi, esercizi bizzarri come La bucanera de Pernambuco o La condesa sangrienta (novella travestita da recensione del romanzo di Valentine Penrose): testi in cui uno humor feroce si fonde con infiniti giochi di parole e con un assortimento di oscenità, e che fanno pensare ad autori come Copi, Osvaldo Lamborghini o Nestor Perlongher, anche se la parentela è sottile e resta indefinita, perché una delle caratteristiche principali di Pizarnik è la sua unicità in seno al panorama letterario sia nazionale che latinoamericano.
Se la si può in qualche modo collegare ai neoromantici e ai surrealisti argentini (secondo César Aira, che su di lei molto ha scritto, la sua opera nasce e si sviluppa alla luce del surrealismo), appare evidente che i riferimenti sono soprattutto europei (Mallarmé, Artaud e principalmente Lautréamont) e che un solco profondo la separa dalle correnti poetiche nazionali, in genere assai sensibili ai cambiamenti sociali e politici, dei quali, invece, nei suoi scritti non si trova traccia.

INDIFFERENTE ai cinque colpi di stato avvenuti nel corso della sua vita, all’avvento del peronismo, alla repressione e alla censura, Pizarnik era impegnata in una continua e spietata introspezione, senza per questo prescindere dallo sguardo altrui: guardarsi di continuo, essere continuamente guardata per poter esistere, e dunque per poter scrivere, sempre attingendo ad altre scritture, in un minuzioso collage di citazioni che testimonia la qualità postmoderna e anticipatoria della sua opera.
Quello che la nuova biografia mette in luce è soprattutto l’esistenza di tante e diverse Alejandra, incatenate l’una all’altra dalla nostalgia dell’infanzia, dall’insicurezza e insieme dalla consapevolezza del proprio valore, da un senso dell’umorismo che la rendeva straordinariamente vivace e divertente, dall’improvviso sprofondare nell’angoscia, da una esibita incapacità – o piuttosto dal rifiuto – di affrontare la vita quotidiana (a mantenerla furono, per tutta la vita, i genitori insultati e disprezzati), da una sessualità turbolenta ed eccessiva, esasperata forse, dice Piña, dai farmaci prescritti da uno psicoanalista incauto, e da una fame d’amore che nessuno dei suoi molti amanti, uomini o donne, riusciva a soddisfare.

POETA GRANDISSIMA e pronta ad annullarsi nella propria opera, figuretta androgina, di per sé eversiva e in anticipo sui tempi, incapace di invecchiare e perciò di vivere, Pizarnik ci appare inesauribile, contraddittoria, ammaliante, mai raccontata fino in fondo. Anche Piña e Venti, pur così attente e minuziose, davanti ad alcuni avvenimenti dei suoi ultimi anni e a certi suoi «terribili e pornografici» scritti privati hanno deciso di mantenere il silenzio, perché a volte non si può né si deve sapere tutto. Oppure sì?
I lettori e i critici continueranno a chiederselo, compresi, forse, i suoi molti estimatori italiani, che per ora la conoscono solo attraverso le traduzioni di Claudio Cinti (La figlia dell’insonnia, Crocetti 2020) o di Roberta Buffi (Poesia completa, LietoColle 2018), e alla breve selezione di lettere a cura di Andrea Franzoni e Flavio Orecchini (L’altra voce, Giometti e Antonello, 2019).