Una sinfonia politica in mille frammenti
Nuit Blanche L’ultima edizione di Bertrand Delanoë a fine mandato vede fra gli eventi, la performance di Avi Mograbi: un flusso di video, musica e tecnologia
Nuit Blanche L’ultima edizione di Bertrand Delanoë a fine mandato vede fra gli eventi, la performance di Avi Mograbi: un flusso di video, musica e tecnologia
Tra qualche mese, Parigi voterà un nuovo consiglio comunale. Il socialista Bertrand Delanoë, che ha governato la capitale negli ultimi dodici anni, non si ricandiderà. La Notte bianca è un’invenzione della sua amministrazione. La prima edizione ebbe luogo nel 2002, all’inizio del suo mandato. In quell’occasione, il sindaco fu accoltellato davanti all’Hôtel de ville. L’autore del gesto ha in seguito dichiarato: «odio i politici e in particolare gli omosessuali». L’iniziativa (culturale) fu un successo ed è ormai un’istituzione. Ogni anno, all’inizio di ottobre, per una notte, i principali musei restano aperti e numerosi eventi effimeri sono organizzati in diversi luoghi della città. L’ultima notte della gestione Delanoë si è tenuta il 5 ottobre. I due momenti più rilevanti sono stati due non-film, rispettivamente di Avi Mograbi e di Chantal Akerman.
La palestra del Liceo Jemmapes si trova sul canale St. Martin. Il corso d’acqua entra nella città dalla parte nord, passa sotto la piazza Stalingrado, ne riemerge poco dopo e, attraversati gli arrondissements 10 e 11, si riversa nel bacino dell’Arsenal. Qualcuno lo ricorderà, le sue chiuse e i suoi ponti fanno da sfondo ad un episodio de Le Inchieste del commissario Maigret che si chiamava proprio La chiusa (1968). Il canale è una frontiera. Un tempo, separava la Parigi borghese dai quartieri delle classi «pericolose», composte in maggioranza dall’immigrazione interna, quelle che durante il secolo che Hobsbawm ha definito «lungo» si sono rivoltate senza sosta, animando e difendendo, barricata per barricata, rivoluzioni che la borghesia ha represso con una ferocia e dipinto con un disprezzo che sembrano lontani solo perché gli eredi di quella classe oggi li riservano a popolazioni confinate dietro altre frontiere. Quelle, per esempio, filmate da Avi Mograbi.
Lo schermo è sospeso a 4m da terra come una rete da pallavolo e più o meno della forma e dimensioni di questa. Dietro di esso, quattro amplificatori sormontano altrettanti video proiettori. Le immagini che questi proiettano si stampano una accanto all’altra al contrario, in modo che il pubblico, seduto dall’altro lato dello schermo, le veda nel verso giusto. Tra il pubblico e lo schermo, seduti rispettivamente dietro ad un computer e ad un mixer ci sono Avi Mograbi e l’autore delle musiche dei suoi ultimi due film: Noam Embar. Ogni performance dura all’incirca 45 minuti per un totale di quattro, ognuna diversa, con un quarto d’ora di pausa tra l’una e l’altra. Sul computer, un software appositamente concepito da Avi Mograbi in collaborazione con un ingegnere informatico controlla il flusso delle immagini. Sulla parte alta del monitor, c’è una rappresentazione grafica del grande schermo con i suoi quattro spazi di proiezione. In basso, il materiale video è ripartito per vignette, una quarantina, ognuna delle quali corrisponde ad una sequenza. Spostando una vignetta su uno dei quattro spazi, il contenuto è proiettato sulla parte corrispondente del grande schermo.
Le sequenze appartengono all’intera filmografia di Avi Mograbi. C’è, per esempio, il finale del suo primo film, quello in cui interpreta il ruolo di un regista di sinistra che, cercando di mettere in cattiva luce Ariel Sharon ne filma una campagna elettorale e finalmente è conquistato alla sua causa: Come ho imparato a non avere paura e ad amare Ariel Sharon (1994). Un’altra sequenza è estratta dall’ultimo film, presentato al festival di Roma l’anno passato: Sono entrato nel mio giardino (2012). Alcune illustrano dei momenti di tensione con dei soldati, con dei coloni, con dei semplici passanti. Molte riprendono discorsi, eventi pubblici, concerti di stato.
Ognuna rappresenta un tassello del quadro politico che il regista israeliano non ha smesso, dacché fa film, di raccontare. La performance consiste a giocare con i video, metterne insieme due, tre o quattro, oppure ripeterne uno su più parti del grande schermo, come se si trattasse di note con le quali comporre accordi, creando per apposizione singola o multipla ogni sorta di confronto (opposizione, contrasto, amplificazione), di figura (ossimoro, paradosso), di tono (ironia, dramma). L’opera di vent’anni, sei lungometraggi e diversi corti, smembrata in pezzi autonomi, è così rimontata in diretta. Ogni volta che Avi aggiunge un video, la colonna sonora di questo passa sul mix di Noam Embar, il quale ne modula il volume. Come un direttore d’orchestra che invece di essere rivolto verso i musicisti desse indicazioni agli spettatori, Noam aumenta o toglie, azzittisce o mescola il suono di ognuna delle quattro colonne di amplificatori, invita chi guarda a muovere lo sguardo qui o là e a comporre in tal modo, in diretta, un flusso di immagini e suoni.
Non c’è modo migliore di questo per mostrare come viene «scritto» un film di Avi Mograbi. Non a priori, con una sceneggiatura, ma su una time line, in fase di montaggio, ascoltando e mettendo insieme quello che si è registrato e sentendo se suona giusto.
Uscendo, vale la pena di fermarsi al 17 della rue de la Fontaine des rois. «Qui resistette l’ultima barricata della Comune.» Recita una placca, che aggiunge: «Centoventi anni dopo il Partito socialista e il suo segretario Pierre Mauroy rendono omaggio al popolo di Parigi che ha voluto cambiare la vita». Questa farsa a buon mercato (in tutta la loro storia, quando c’è stato da scegliere tra la rivolta e l’ordine, i socialisti si sono sempre allineati con il partito dell’ordine) stona più del solito dopo un anno e mezzo di governo Hollande, eletto dietro la bandiera del «cambiamento», mentre il programma vero era ancora quello che il banchiere Lafitte svelava al duca d’Orléans: «D’ora innanzi regneranno i banchieri».
Era allora il luglio 1848 e i due amici camminavano a braccetto, dice Marx, dalle parti dell’Hôtel de ville. La «place» dello Châtelet è a pochi passi, non ha nulla a che vedere con una piazza. È piuttosto un crocevia infernale. È per questo che, la sera del 5 ottobre, lasciando quel caos e penetrando immediatamente, non c’era biglietteria, dalla strada alla platea immersa nel buio, l’impressione è quella di esser saltati nel ventre pescecane che mangiò Pinocchio. Proprio come nel racconto di Collodi, un lumicino si scorge sul fondo. Sulla scena, sola dietro ad una scrivania, illuminata da una lampada da scrittoio, c’è Chantal Akerman. Quando arriviamo, è già un’ora che sta leggendo il manoscritto del suo ultimo libro, ancora inedito, Ma mère rit. Finirà verso mezzanotte. Il libro parla di tre città Bruxelles, Parigi, New York, di rivolte, di donne, di amori. È un flusso di coscienza che si indirizza ora a tale M, ora a tale C, spesso alla madre, sempre a se stessa. Difficile riassumere. Come per Mograbi, più che le immagini, in questo non-film, conta il suono. È la voce di Akerman che resta impressa e che trasmette un documento più vivido di una foto. Qualcuno, uscendo, ha detto: «ho ascoltato il rumore del mondo».
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