Guido Barbujani, in Come eravamo – Storie della grande storia dell’uomo (Laterza, pp. 208, euro 20), presenta al lettore un rompicapo che, evitando argomentazioni estetizzanti, riesce a incuriosire con una coesione e una coerenza perennemente aperte al dubbio. Il saggio del genetista dell’Università di Ferrara offre così un’alternativa illuminista ai bestseller di Yuval Noah Harari. Tanto lo storico israeliano è assertivo, spesso in maniera tautologica, e antimodernista nella psicologia sociale che ne sottende la retorica, tanto Barbujani concentra la narrazione sui nessi di causalità, cercando però la vita nei fossili quasi alludesse a una Spoon River dell’evoluzione.

RICOSTRUIRE la nostra ascendenza non è semplice come suggerirebbe l’araldica. Le genealogie reali non sono rette che collegano presente e passato di maschio in maschio: si diramano, si aggrovigliano. Quanto di meno simile a quell’immagine abusata finita perfino sulle t-shirt, dove dei profili camminano in fila indiana: a sinistra una scimmia, a destra l’uomo tecnologico.
Come eravamo esibisce invece una sfilata di personalità altre che hanno tuttavia in comune un identico istinto di sopravvivenza, attraverso le quali l’autore racconta cambiamenti partiti da evoluzioni tutte corporali: il bipedismo che libera le mani, la scoperta del fuoco che alleggerisce lo stomaco e lascia spazio al cervello, come già intuito da Friedrich Engels nel 1876.
Alcune di queste personalità, con la propria morte oltre ogni termine prevedibile, testimoniano il progresso dell’umanità verso una maggiore solidarietà. È il caso di Dmanisi 4, uno dei quattro crani trovati in Georgia: apparteneva a un adulto cui era rimasto un dente solo. Gli altri li aveva perduti da vivo, perché gli alveoli avevano goduto del tempo necessario per riempirsi di tessuto osseo. Perciò, per mesi, qualcuno 1,8 milioni di anni fa si occupò di una fragilità.
Se parliamo di Homo heidelbergensis, progenitore di sapiens e neanderthal, non possiamo che citare Atapuerca, dove sono stati rinvenuti resti di ventotto individui vissuti 430mila anni fa. Tra loro, un bambino affetto da craniosinostosi. Ciononostante, questo bimbo sopravvisse cinque anni. Qualcuno si prese cura di lui.

ANCHE BARBUJANI RIVELA un debole per neanderthal. Con trasporto ci ricorda infatti che la paleontologia umana nacque proprio quando dalla cava di Feldhofer questi se ne venne fuori con un primo scheletro. Eravamo nel 1856; tre anni dopo sarebbe arrivata l’Origine delle specie di Darwin. Neanderthal fu subito additato a esempio di non umanità. Poi la sua reputazione è migliorata, quella dei sapiens no.
A Shanidar, un sito iracheno da cui provengono nove neanderthaliani vissuti fra 65 e 35mila anni fa, si distingue Shanidar 3: ha una lesione sulla nona costola sinistra, provocata secondo Steven Churchill da una punta di freccia. L’aggressore non poteva essere un suo simile, perché la struttura dell’omero neanderthaliano è incompatibile con il lancio di armi. E quindi siamo stati noi. Almeno uno, lo abbiamo ucciso.
Da qui, tuttavia, il libro non prende una piega negativa. L’autore – in questo lontanissimo da Harari, che sembra rimpiangere un Eden dissipato – non guarda al trapassato per rintracciarvi un peccato originale. Barbujani, soprattutto, è un genetista. E, quando si interroga sulle prospettive evoluzionistiche, è alla genetica che chiede. Uno dei protagonisti del saggio, il più originale, non è un fossile concreto, ma la cosiddetta Eva mitocondriale: l’ipotetica antenata comune a ogni sapiens dalla quale devono essere passati circa 200mila anni affinché l’intera umanità possa aver sviluppato tutte le differenze genetiche osservabili. È la paleontologia a confermare: il primo sapiens viene da Omo Kibish, in Etiopia, e ha 190mila anni.

MA, TRA EVA E NOI, che ne è stato dei neanderthal? Quando ci incontrammo, in Europa, noi eravamo forse quarantamila, loro giusto un decimo. Una sentenza. In Romania, presso il confine con la Serbia, c’è Pestera cu Oase. Svante Pääbo, ultimo Nobel per la medicina, ritiene che il primo sapiens lì studiato abbia dal 6 al 9% del genoma di provenienza neanderthaliana: l’antenato neanderthal era un trisavolo.
«Fra 500 e 700mila anni fa, in Africa, un gruppo umano, forse Homo heidelbergensis, si divide in due. Una parte resta lì, un’altra migra verso nord e, arrivata nel Vicino Oriente, si divide una seconda volta». Sintetizza così, Barbujani. Poi alcuni se ne vanno in Asia, dove si evolveranno nei misteriosi denisovani; altri verso ovest, e lì daranno vita ai neanderthaliani. Nel frattempo, in Africa, compare Homo sapiens, che 100mila anni fa si affaccia sul Vicino Oriente. «Qualcuno prenderà la strada per l’Asia, altri si dirigeranno verso l’Europa. Entrambi incontreranno altre forme umane e non si limiteranno ad ammazzarsi a vicenda oppure a guardarsi teneramente negli occhi».

SCHEDA

A Melka Kunture, sull’altopiano etiopico, lo scavo diretto da Margherita Mussi dell’Università Sapienza di Roma ha individuato quello che finora risulta il più antico sito in cui furono prodotti utensili. Lo studio, pubblicato sulla rivista «Nature Ecology and Evolution», ha evidenziato cinque livelli archeologici dell’Acheuleano: uno di essi – databile a un milione e duecentomila anni fa – contiene non solo numerosi bifacciali di ossidiana, ma anche schegge derivate dalla loro lavorazione.