Una sfida immaginativa verso una prassi di avvenire conviviale
Scaffale «Domani urbani. Futurologia e immaginari» di Alberto Di Monte e Giulio D’Errico, per Agenzia X. Saggi e racconti che propongono soluzioni alternative. E praticabili
Scaffale «Domani urbani. Futurologia e immaginari» di Alberto Di Monte e Giulio D’Errico, per Agenzia X. Saggi e racconti che propongono soluzioni alternative. E praticabili
Giovani seguaci di Fourier crescono. L’eroe dell’immaginazione senza confini esaltato dai surrealisti teorizzava falansteri autogestiti, dove ogni aspetto della vita veniva sottratto alle tentazioni gerarchiche, stravolto dalla gioia e dalla creazione. Se il fatalismo catastrofico sta diventando una profezia che si autoavvera perché troppe persone pensano che un riorientamento radicale della società è impossibile, è giunto il momento di immaginare soluzioni visionarie che permettano di vivere meglio oggi e inneschino potenze desideranti.
UTILISSIMO è Domani urbani. Futurologia e immaginari, volume collettivo curato da Alberto «Abo» Di Monte, Giulio D’Errico (Agenzia X, pp. 206, euro 15), un manuale di futurologia e utopie concrete. Se per far impallidire qualsiasi utopia tecnologica potrebbero bastare la visionarietà di Fourier e le ultime cento pagine di Il nuovo mondo amoroso – con le guerre di timballi e bignè e amori onnigami -, le proposte di Domani urbani sono meno eccentriche e molto più concrete eppure ugualmente visionarie, proprio perché contro la paralisi immaginativa e la depressione apocalittica abbiamo bisogno di nuovi sogni condivisi, di cospirare, respirare assieme, direbbe Bifo.
Nel libro, il futuribile «si muove in direzioni diverse» – molto diverse – «a volte contraddittorie, si discosta da un lato dalle interpretazioni hollywoodiane della distopia futura, sia da quelle narrazioni che poco fanno se non estendere all’infinito il controllo della macchina capitalista», avverte D’Errico nella prefazione, e ci ricorda che «il recente ritorno della critica agli ‘eccessi’ del capitalismo – del neoliberismo ma non del capitalismo stesso – è stato infatti accompagnato da un fenomeno curioso: l’incapacità di portare questa critica al suo limite ultimo». Proprio come aveva fatto Fourier duecento anni fa. Inascoltato. Di Monte nella premessa invita invece a iscriversi all’«accademia del disastro» teorizzata da Paul Virilio, «senza mettere da parte la curiosità di sapere quali buone idee sono in circolo e liberi dall’immanenza del cataclisma che produce solo ansia, passività e frustrazione».
L’IPOTESI DI LAVORO del volume è che il momento sia propizio per riprendere la sfida immaginativa e con essa la prassi di un futuro incredibile e conviviale, incredibile perché conviviale. Nel libro troviamo sia brevi saggi che racconti che affrontano molti aspetti della vita quotidiana, proponendo soluzioni condivise, ecologiche, alternative: Askapen ci parla della mobilità, Boykin della medicina, Braga di un’economia non capitalista, Cossutta di città transfemministe senza centri, Geijer della gestione della sanità, Paura di transumanesimo e della patetica nuova corsa allo spazio, Perin e Portelli della riconquista dal basso di spazi pubblici, Priebe dell’importanza di decostruire gli immaginari fossilizzati, Salvini e Torre – intersecando fiction e realtà – di diritti civili-digitali ed ecologia, Taddei di una piccola utopia inventata, Spagnul – in maniera molto accurata – ci mostra la crisi della fantascienza e la sua nuova possibile funzione rivoluzionaria.
Se è vero che «da diverso tempo il futuro si è guastato e non gode affatto di buona salute» e «il carattere rassicurante del domani, la promessa di emancipazione hanno perso molto del loro fascino», un ultimo avvertimento dobbiamo tener presente, importante tanto quanto le alternative che il volume propone: il domani – come scrivono i curatori – «pur aperto all’improbabile, non può essere scevro dal conflitto». «Non vi lasceranno sperimentare in pace», ricordava Deleuze, e – rivoluzionarie o riformiste – le lotte saranno sempre più necessarie, e non serve solo immaginarle, ma attuarle.
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