Una segregazione dal volto umano
Pamphlet «Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza» di Salvatore Ricciardi per DeriveApprodi. La pacificazione di un universo concentrazionario. Il testo di un ex- detenuto «di lungo corso»
Pamphlet «Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza» di Salvatore Ricciardi per DeriveApprodi. La pacificazione di un universo concentrazionario. Il testo di un ex- detenuto «di lungo corso»
Non bisogna guardarsi solo dagli appassionati di galera, che in Italia sono ormai legione e vagheggiano un universo concentrazionario in cui rinchiudere un po’ tutti, dai microcriminali agli immigrati ai politici: più che la cultura diffusa di un paese riguardano la psicopatologia di massa. Più sottile, meno incarognita ma a modo suo più subdola, è la posizione di chi sul degrado delle carceri italiane si commuove e chiede il ripristino della civiltà. Dateci celle pulite, non sovraffollate e non ci sarà più problema.
Va da sé che evitare di rinchiudere in loculi pensati per due persone il doppio o peggio di detenuti sarebbe un passettino avanti, ma non è quello il cuore della bestia e concentrarsi sulle disfunzioni rischia di stornare l’attenzione dall’orrore della funzione in sé. La mostruosità del carcere è altrove. La descrive senza un solo rigo di troppo Salvatore Ricciardi in un libretto conciso e folgorante, corredato da un glossario esauriente della terminologia carceraria,: Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza (DeriveApprodi, 2015, pp. 125, euro 12, prefazione di Erri De Luca). Ricciardi, classe 1940, ex Br, una trentina d’anni passati tra galera e misure alternative, sa di cosa parla. Ormai libero, la prigione la porta incisa nell’anima, come tutti i «detenuti di lungo corso». Non spreca inchiostro per raccontare aneddoti, evita ogni effetto splatter. Del carcere, della sua logica feroce, della sua atrocità non passibile di «umanizzazione», fa emergere le strutture profonde, costitutive, dunque non riformabili. Nei suoi consigli «per resistere» il fondamento resta sempre lo stesso: non accettare quella logica. Non «sedersi», come si dice in gergo. Continuare, con ogni mezzo, ad opporsi alla dimensione carceraria.
Più che di celle strapiene, Salvatore Ricciardi parla di quella «sospensione del tempo» che dell’istituzione carceraria è il cuore, anche più della segregazione spaziale. In galera il tempo viene «arrestato». Se ne perde la scansione perché viene a mancare ciò che del tempo è misura: il cambiamento. La galera è quel posto dove nulla succede, nulla mai cambia, e l’assenza del tempo dà alla testa, induce depressione, tortura le vittime.
Più che i maltrattamenti e le vessazioni, a cui pure non mancano le allusioni precise, Ricciardi illustra la deprivazione sensoriale, scientificamente indotta, che distorce progressivamente, nei reclusi, la percezione della realtà. In galera, scrive, c’è un senso che domina tutti gli altri ed è adoperato per mantenere i contatti con la realtà di quel microcosmo segregato: l’udito. Sono i rumori a dar conto della realtà: i passi pesanti delle guardie o quelli leggeri delle «squadrette» che si avvicinano per un pestaggio, le sbarre battute per dare la sveglia, lo spioncino chiuso a fine giornata, il brusio continuo le cui modulazioni sanno essere eloquenti e annunciare ciò che sta per succedere.
Poi la solitudine, perché la sofferenza è sempre solitaria. E l’infantilizzazione, la soppressione di ogni autonomia, dunque di ogni dignità, la necessità di inoltrare la «domandina» per qualsiasi cosa: «Il suicidio è l’unica cosa che puoi fare in carcere senza inoltrare la perenne “domandina”. Solo un’altra cosa puoi fare senza chiedere il permesso: evadere». Cercare di evadere o di ribellarsi sono le uniche attività che permettono di contrastare la presa del carcere sull’anima, la psiche e il corpo del detenuto: restituiscono al tempo il suo senso; riportano alla luce la dignità sepolta da un’istituzione che è studiata invece proprio per sopprimerla; consentono di non volgere contro se stessi e il proprio corpo, nel suicidio o nella mutilazione, la disperazione e l’energia repressa; rompono il muro grigio dell’isolamento.
Opporsi al carcere, combatterlo, tenere sempre presente il conflitto che contrappone detenuti e guardie, diventa così questione di vita o di morte, la sola via per sopravvivere al carcere. La dimensione premiale e non conflittuale che ha riportato l’ordine nelle patrie galere è dunque per Ricciardi un’arma a doppio taglio, proprio perché sterilizza l’istinto di contrapposizione e rivolta: «Prima tra guardie e detenuti era guerra aperta, una guerra con le sue regole basate sui rapporti di forza… Oggi in carcere regna l’illusione che i potenti possano umanizzarlo». È per questo, secondo Ricciardi, che mentre nel «carcere violento» dei vecchi tempi il tasso di suicidi era del 3,01%, in quello «pacificato» di oggi si è moltiplicato sino al 10,3%.
Quale può essere, però, l’alternativa, a un carcere pacificato, «dal volto umano», inteso come ultima frontiera del progresso? Ricordarsi che il carcere non c’è sempre stato e non ci sarà per sempre. Può essere abolito: «Anche il carcere passerà, e balleremo sulle sue macerie».
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