Una scrittura poetica che indaga e proietta come una camera oscura
Franca Mancinelli è una poetessa marchigiana. Nata a Fano nel 1981 ha pubblicato le raccolte di poesie Mala kruna (Manni, 2007), Pasta madre (Nino Aragno, 2013), Libretto di transito (Amos, […]
Franca Mancinelli è una poetessa marchigiana. Nata a Fano nel 1981 ha pubblicato le raccolte di poesie Mala kruna (Manni, 2007), Pasta madre (Nino Aragno, 2013), Libretto di transito (Amos, […]
Franca Mancinelli è una poetessa marchigiana. Nata a Fano nel 1981 ha pubblicato le raccolte di poesie Mala kruna (Manni, 2007), Pasta madre (Nino Aragno, 2013), Libretto di transito (Amos, 2018), mentre è nelle librerie Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos). Sue poesie sono state tradotte in e accolte in volumi antologici.
FABIO PUSTERLA NE SCRIVE in quarta di copertina: la scrittura «si affida a un difficilissimo equilibrio, tra esattezza del dettato e concentrazione semantica, ottenuta con l’esercizio costante di due forze complementari, quella che accentua e amplifica e quella che elimina e abrade». La poesia della Mancinella è impegnativa. Non perché sia difficile, linguisticamente, anzi, operando verso un’estrema pulizia e sintesi, il linguaggio risulta diretto, la lingua non è dissimile dalla lingua che usiamo ogni giorno. Esempi: «Ci svegliamo dentro gli occhi di un uccello. / È questo il mondo, un frutto spezzato / a colazione, il cerchio della tazza / specchio che si apre / su un prato, una coperta / a contenerci come un’isola / da cui non siamo nati»
OPPURE: «ENTRO NELLA pioggia come in un bosco / -ali fittamente intessute / aperte e richiuse sotto la scorza. / Cammino, la nuca protetta / dai miei custodi, liberato lo sguardo / dalla gabbia degli occhi». Il linguaggio è chiaro, esprime quel che deve dire. Le immagini sono minimali e si ravvisa un tentativo d’intrusione nel microscopico, adottando l’istinto che governa ogni forma di esistenza, senza preoccuparsi se i propri occhi di umana possano davvero penetrare le altre tipologie di vita. Ora sono un uccello, e vedo, respiro, agisco da uccello. Ora invece sono pioggia, e sento da pioggia. Mi schianto come pioggia. O sono un albero e agito le foglie, le perdo, le rigenero, ascolto il vento, lo accolgo e lo assecondo. «Ho visto gli occhi degli alberi // nel folto una scossa / di chiarore rimasto – a vegliarci / come fitta pioggia che aspetta» (pagina 28). Talvolta, come in quest’ultimo caso, si mantiene uno scarto, poiché si cerca di vedere l’invisibile o di vedere in altro modo, rispetto al nostro; infatti si vedono altri occhi che vedono, e che a loro volta vengono osservati da qualcos’altro, in un riuscito gioco di specchi. Gli alberi sono una entità molto presente, non a caso una sezione del libro s’intitola Alberi maestri.
Tre incisioni compongono le Cartoline per un paesaggio (alle pagine 107-109), la seconda soprattutto mi colpisce: «Il mare cambia la terra / si muove per scie di arature / correnti di semine, strade / che affondano. Piccole luci / lontano le case si fanno candele: / ché la notte pronunci / ogni gesto del giorno».
LE CASE LONTANE, UN BORGO, la sera che si manifesta e le finestre che diventano candele. Mi ricorda certi paesi annidati nei paesaggi agresti abruzzesi, quasi strangolati dalla notte che incede. Perché si tratta di una poesia impegnativa? Poiché la miniatura verbale qui raggiunge una scrupolosità che non lascia scampo, il lettore è chiamato a vigilare e soppesare ogni minimo spazio bianco fra queste poche parole. Sarebbe interessante mettersi accanto al lettore assorto, e chiedergli: cosa stai pensando? Che cosa vedi? Riesci a viaggiare dentro queste poesie? Sarebbe interessante ascoltare le risposte. Magari lo sviluppo delle tecnologie un giorno ce lo consentirà, sempre che non diventi un incubo.
A RIPROVA DELL’ESTREMO controllo tutte le poesie iniziano con una lettera minuscola e terminano con un punto, come se l’inizio fosse sempre altrove, non udito, o non udibile, mentre la fine è certa, imperiosa e puntuale. Fanno eccezione i testi in prosa che sono al fondo, estratti di un Taccuino croato, già pubblicato nell’opera a tre voci Come tradurre la neve e qui ribattezzati Diario di passo. Si tratta di scritti nati durante una residenza artistica e un viaggio nei luoghi di confine lungo la tratta balcanica dei migranti, fra Serbia e Slovenia. E infatti: «non si chiudono gli occhi. / Vedo da dentro –il buio / dal germe a questo incavo: / scrittura, mia camera oscura» (pagina 85) sentenzia la Mancinelli, una dichiarazione di «colpevolezza», una confessione: la scrittura è fotografica, coglie e proietta, indaga e custodisce, è una camera oscura. Ma senza diventare pura scienza, c’è sempre un travestimento in agguato, un cambio di specie, e chissà dove i prossimi occhi della poetessa ci accompagneranno.
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