Cultura

Una ricca sedia poco politically correct

Una ricca sedia poco politically correctLa foto che ha scatenato le polemiche dentro e fuori la rete

Tempi Moderni Dasha Zhukova è la compagna del proprietario del Chelsea. E' una collezionista d'arte e dirige una rivista. Si è fatta fotografare su un'opera che cita una performance artistica degli anni Sessanta. L'immagine ha fatto il giro del web, provocando le ire delle persone di colore. Dietro la polemica, emerge il provincialismo di una "nuova borghesia" che cerca di accreditarsi come la mecenate del nuovo millennio

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 23 gennaio 2014

Gli esponenti del nuovo lumpen-capitalismo russo avranno di certo i mezzi per ottenere qualunque cosa, ma hanno ancora una lunghissima strada da percorrere quando si tratta di guadagnarsi credenziali culturali che siano non soltanto rispettabili, ma perlomeno accettabili. E, come ci insegnano i testi letterari sacri del realismo borghese, per quanto difficile, la soddisfazione delle ambizioni materiali non è che l’inizio di una strada ancora terribilmente in salita, irta di condiscendenza, sussiego, invidia, disprezzo. Talvolta ben meritati.

Lo dimostra in maniera che più icastica non si potrebbe l’incidente capitato a Dasha Zhukova, la compagna del proprietario della squadra di calcio del Chelsea, Roman Abramovich, uno dei tanti Rockerduck al cubo spuntati come funghi in Russia. Un’immagine che la ritrae nell’intimità della sua dimora, infatti, ha appena scatenato un putiferio non appena è circolata in rete.

L’immagine è parte di un servizio uscito per il sito web di moda «Buro24/7» e si accompagnava a un’intervista/presentazione della rivista da lei diretta, «Garage». La ritrae seduta in casa sua con indosso un’ariosa blusa bianca, a piedi nudi e con lo sfondo di un raffinata credenza razionalista. L’idea è di presentarsi come una Peggy Guggenheim 2.0 e fin qui rientriamo in quell’ansia di accettazione che divora il fegato dei nouveau riches, più che mai se provenienti dall’ex patria del socialismo in un solo Paese tramutatasi velocemente in O.k.Corral del capitalismo globale. Inoltre, nell’intervista lamentava il provincialismo e la marginalità di cui soffre la cultura russa contemporanea. Dunque qual’è il problema? Il problema è la sedia su cui siede. Questa è un’opera dell’artista norvegese Bjarne Melgaard, che consta di un manichino di sesso femminile cinto in corsetteria sadomaso e reclinato a gambe all’aria con sopra un comodo cuscino. Non finisce qui. Il manichino ha la pelle nera.

Dunque la nostra «Peggy dei ricchi» è una straricca donna bianca seduta su una donna-sedia nera. Nonostante molti abbiano ormai lo stomaco forte in fatto di politically correct, un’immagine del genere è improbabile non desti – nel migliore dei casi – qualche perplessità, e nel peggiore autentica ira. Tanto per avvelenare ulteriormente gli animi, l’immagine è circolata in rete proprio nel giorno in cui negli Stati Uniti cadeva la ricorrenza del Martin Luther King Day, sollevando un putiferio di critiche.

Sia Miroslava Duma, il direttore di «Buro24/7», sia la stessa consorte di Abramovich si sono affrettate a smentire qualunque intento offensivo o razzista e a fornire delle scuse formali. Chissà, forse pensavano che il mondo connesso a internet fosse unicamente composto da gente bianca, middle class e innamorata di Damien Hirst e Jeff Koons. Forse non sanno che la popolazione degli Stati Uniti consta di alcuni afroamericani, o che una delle industrie leader globali del software sia indiana.

E poi come avranno fatto, questi bigotti, a non notare che il pezzo in questione è una citazione di un identico lavoro risalente alla fine degli anni Sessanta dell’artista pop Allen Jones, il quale già allora aveva provveduto a é paterles progressistes usando come ispirazione «solo» una donna bianca? E tra icritici d’arte c’è chi, come Jonathan Jones del «Guardian» ha spiegato che l’intento era sì provocatorio, ma tutt’altro che razzista. In effetti, il tornare da parte del norvegese sul lavoro di quarant’anni fa del collega inglese cambiando l’etnia del soggetto non fa che attualizzare la provocazione, alzando la barra dell’oltraggio, evidenziando il fatto che se l’opera di Allen Jones è oggi accettata come iconica (ricordiamoci che la sua estetica è filtrata nella scenografia di «Arancia Meccanica»), non si vede come mai non dovrebbe esserlo anche la sua. Insomma, è la solita forma di onanismo amorale in cui l’arte contemporanea, da Warhol in poi, continua a sguazzare: la sedia, un tempo «misogina», oggi è «razzista».

Può darsi che Miss Zhukova e Miss Duma comprendano che è finito il tempo delle avanguardie che si prendevano gioco della morale borghese europea (perché l’egemonia europea è ormai bella putrefatta), e che l’ipocrisia di detta morale è stata sostituita da quella del politically correct: ma in tal caso, come hanno fatto a farsi sfuggire in rete un’immagine così evidentemente tossica per milioni di persone?

Dasha Zhukova combatte il tedio connaturato all’essere immensamente privilegiata con l’arte. Ha una galleria d’arte, colleziona arte, scrive d’arte. Insomma, visse d’arte. Ironia ha voluto che l’intervista in cui lamentava il provincialismo e la marginalità di cui soffre la cultura russa contemporanea fosse accompagnata da un’immagine scaturita proprio da quel provincialismo e marginalità.

 

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