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Una rete antropologica fra riti, luoghi e ricette

Una rete antropologica fra riti, luoghi e ricetteLawrence Alma-Tadema, «La siesta o Escena pompeyana», 1868, Madrid, Museo del Prado

Antichi Romani a tavola In un libro molto illustrato di Nuova Ipsa Editore, Alberto Jori ha ricostruito le abitudini alimentari degli antichi, confrontandole sistematicamente con le nostre

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 19 febbraio 2017

Provate a dire a un vegetariano o vegano che è una persona frugale. Lo prenderà come un riconoscimento relativo alla scarsa quantità di cibo che consuma, ma non ne coglierà, a meno che non conosca un po’ di latino, la semplice descrizione di una scelta alimentare (di qualità, quindi).
Lo osserva Alberto Jori nel suo Panem et circenses Cibo, cultura e società nella Roma antica (prefazione di Gianluca Mech, premessa di Michael von Albrecht, Nuova Ipsa Editore, Palermo, pp. 471, € 49,00): «Il nome che designava i cereali nel loro complesso (dei quali il frumento sarebbe entrato a far parte solo molto più tardi) e tutti i frutti della terra, comprese le verdure, era fruges. È appunto da qui che viene la parola ‘frugalità’, con la quale ancor oggi si indica l’atteggiamento e o stile di vita di chi vive in modo semplice e parco, alimentandosi per lo più dei frutti della terra. E in effetti i primi Romani furono davvero frugali in questo senso».
Immagino che quest’ultima frase di Jori potrà sorprendere i cultori dei film peplum, nei quali, in genere, i banchetti sono popolati di inveterati gozzovigliatori, intenti ad addentare cosciotti di animali ‘pingui’, a bere fiumi di vino ecc. Ma non saremmo, neanche in questo caso, lontani dalla realtà. Solo che, a differenza dello schiacciamento e livellamento temporale al quale probabilmente ci spingono espressioni generalizzanti come ‘i Greci’, ‘i Romani’, Jori intende giustamente ricostruire e descrivere la cultura alimentare dei Romani nella sua evoluzione storica (così si intitola un capitolo del libro).
D’altra parte, la cultura alimentare non è fatta solo di cibo e di ricette (Jori ripropone un consistente numero di ricette antiche, soprattutto del famoso Apicio, pronte per essere utilizzate oggi), ma di scansione dei tempi e dei pasti, di gesti e parole, di riti, di implicazioni religiose, di luoghi, di suppellettili, di partecipazione conviviale, di suggerimenti pubblicitari – non mancano neanche questi – e, infine, di realtà e delle sue rappresentazioni letterarie e iconografiche (il volume è ricco anche di immagini). Naturalmente, sono i testi antichi a consentire una ricostruzione così minuziosa, che si segnala per la sua completezza: testi e autori che vanno dal II secolo a.C. al VII (alcuni, decisivi e famosi, sono tradotti con testo a fronte in appendice), delineando così le tappe di una costante differenziazione di usi alimentari fra settori privilegiati e popolazione povera, fra città e campagna, fra centro dell’Impero e periferia, in una commistione fra usi romani e gusti esotici, che vengono frequentemente assimilati e fatti propri, secondo la caratteristica ‘inclusiva’ della dominazione romana.
Il confronto con l’oggi, dalle persistenze di cibi e sapori alle mancanze – quelle ben note e quelle forse meno note –; l’ammiccante richiamo alle differenze e alle somiglianze ‘ai nostri giorni’, molto insistito, come nel caso dell’accensione del fuoco «non disponendo dei moderni accendini», mette in ogni caso il lettore sempre in grado di cogliere le dimensioni diacroniche e complesse del tema. A volte, però, le parole e le analogie possono ingannare. È il caso di un sintagma intrigante, cenat adulteria, rinvenibile in Svetonio, grammatico e storiografo imperiale (Vita di Augusto LXX), che Jori spiega disinvoltamente come riferito al livello delle conversazioni a tavola, allo sguazzare in un gossip non molto lontano dalle nostre abitudini. E invece no: il testo di Svetonio parla di qualcosa di molto più romano: un banchetto segreto di Augusto, la cena dei dodici dèi, durante la quale i commensali erano travestiti da dèi: Augusto era Apollo. Il sintagma appariva in versi anonimi che circolarono a ridosso del banchetto e significa che i convitati aggiungevano adulterî divini a quelli già noti nei miti. Tutto il contrario, insomma, dell’avventura ‘divina’ che capita a Filemone e Bauci, i due vecchietti che, secondo Ovidio (Metamorfosi VIII 637-692), accolgono generosamente alla loro povera mensa Giove e Mercurio travestiti da viandanti. Bisogna convincersene: è quasi tutto nuovo sotto il sole.

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