Cultura

Una prodigiosa principessa cigno

Una prodigiosa principessa cignoLa principessa-cigno di Michail Vrubel’, 1900

Metamorfosi /1 Da oggi, l'iniziativa estiva delle pagine culturali che indaga sulle trasformazioni di forma, fra inanimato e animato, umano e bestiale, senza dimenticare il mondo vegetale. In questo primo articolo, si va da Ovidio a Puškin seguendo le strategiche mutazioni del mito greco e delle fiabe russe

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 13 agosto 2024

Inoltrandosi in un saggio del 1979 nel mondo sfuggente delle Metamorfosi ovidiane, Italo Calvino lo definì «un universo in cui le forme riempiono fittamente lo spazio, scambiandosi continuamente qualità e dimensioni, e il fluire del tempo è colmato da un proliferare di racconti». Non diversamente l’appassionato curatore delle Fiabe italiane si era espresso a proposito delle fiabe di magia russe raccolte nel 1863 da Aleksandr Afanas’ev e da lui recensite nel 1953 sul «Notiziario Einaudi», in occasione dell’uscita a Torino dell’edizione italiana tradotta da Gigliola Venturi.
A colpire la sua immaginazione, nell’uno e nell’altro caso, era la consapevolezza dell’«unità e parentela di tutto ciò che esiste», ovvero dell’inesauribile transitività delle forme, che, elevata a principio narrativo, dava vita a un «brulicare e aggrovigliarsi di vicende spesso simili e sempre diverse, in cui si celebra la continuità e la mobilità del tutto».

SE INFATTI OVIDIO aveva architettato il proprio poema collocandolo sugli «indistinti confini» (sorprendentemente labili e costantemente valicati) fra animato e inanimato, umano e divino, in modo analogo gli anonimi aedi della tradizione popolare russa avevano creato un universo fantasmagorico dove le metamorfosi più improbabili erano all’ordine del giorno e non di rado accadeva che amanti infelici, perseguitati da maghi malvagi, pur di sottrarsi alle vessazioni di questi ultimi, si trasformassero in aghi, colombi, anelli o addirittura chiese.
Non a caso, Vladimir Propp nel suo celebre studio Morfologia della fiaba individuerà proprio nella transfiguracija («trasfigurazione») la ventinovesima delle trentuno funzioni che, a suo dire, caratterizzano in qualità di elementi fissi i racconti popolari russi. Innescata dalla figura altrettanto ricorrente dell’aiutante, la metamorfosi perde qui quel carattere «punitivo» che aveva spesso nel mito greco – si pensi alle Pieridi trasformate in gazze dopo aver sfidato le Muse nell’arte del racconto o alle pene eterne scontate sotto mutate spoglie da Aracne o da Eco.
Al contrario, l’inopinata dissoluzione di un personaggio e la sua simultanea ricostituzione come «altro» costituiscono il passaggio indispensabile per l’inverarsi del lieto fine, o, in altri termini, rappresentano l’espediente narrativo che solo può avviare una svolta nella trama. Lo si vede ad esempio nella fiaba della principessa-rana, annotata da Afanas’ev nel governatorato di Perm’ e strettamente legata alle credenze sciamaniche diffuse fra gli abitanti della regione. Qui la creatura anfibia sposata per ventura dal malcapitato principe Ivan non sarebbe altro che l’archetipo della consorte totemica con cui il cacciatore alle prime armi era costretto a convivere per un certo tempo al fine di propiziarsi un bottino fortunato. Analogamente, per sfuggire all’inseguimento degli emissari dello zar’, Vasilissa Premudraja (la «savissima») tramuta se stessa e lo zarevic suo marito negli insospettabili elementi del paesaggio che stanno attraversando: un pozzo, una chiesa decrepita ricoperta dal muschio, un vecchio pope. La metamorfosi si fa qui travestimento, strategico occultamento della propria identità mediante l’acquisizione temporanea di un’altra, spesso priva di qualunque affinità con la precedente.

PROPRIO L’ASSOLUTA reversibilità di tale processo, che può invertirsi in qualsiasi momento, nonché la stravaganza delle forme assunte repentinamente dai personaggi, conferiscono a questo genere di metamorfismo un carattere particolarmente gioioso, confinante con l’assurdo, reso splendidamente a livello grafico dalle illustrazioni di Ivan Bilibin, esponente di Mir Iskusstva («Il mondo dell’arte») che con il variopinto repertorio delle fiabe popolari russe si confrontò fin dal 1901.
Surrealmente bidimensionali e depurate da qualsiasi accenno di naturalismo, le tavole dell’artista nato nei pressi di Pietroburgo nel 1876 tradiscono – oltre alla fascinazione che un’intera generazione nutriva allora per il profondo Nord dell’Impero russo, di recente scoperto dalle spedizioni archeologico-etnografiche – anche la consapevolezza della assoluta convenzionalità di questo tipo di narrazione che, non per nulla, attirerà l’attenzione tassonomica di un formalista come Propp.
Se dunque anche il folklore dei popoli dell’Impero russo fa leva su quella «prodigiosa convertibilità della materia» che Calvino aveva osservato nelle Metamorfosi, va detto che il repertorio assemblato da Afanas’ev non reca pressoché traccia di psicologismo, né tantomeno, dei drammi che si producono periodicamente nell’opera del poeta esiliato da Augusto là dove il corpo cambia in modo radicale, ma la mente rimane quella di prima (mens pristina, mens antiqua).
Nella fiaba popolare prevalgono piuttosto giocose, disinvolte transizioni, che non sembrano intaccare la ieraticità bidimensionale dei personaggi, evidentemente più che a loro agio nella propria fluidità. Un’instabilità attestata anche dalla lingua: una peculiare tipologia dei personaggi delle fiabe di magia russe è infatti quella dell’òboroten’ (termine utilizzato sia al maschile che al femminile), ossia dell’essere che per l’appunto è in grado di obratit’sja, «trasformarsi, mutare di forma», volgendosi in una direzione differente rispetto a quella di partenza.
Anzi: l’òboroten’ non può fare a meno di obratit’sja (significativo che questo verbo riflessivo, in un contesto più generico, significhi fra l’altro «rivolgersi verbalmente a qualcuno»), estendendo questa sua facoltà nelle vesti di aiutante anche ad altri. È il caso della più nota òboroten’-femmina, ossia quella carevna-lebed’ («principessa-cigno») che, complice il genio di Aleksandr Puškin, da eroina della vox populi si reincarnò nel 1831 in una figura letteraria capace di ispirare a sua volta artisti come Nikolaj Rimskij-Korsakov e Michail Vrubel’.
Se a detta di Piero Bernardini Marzolla il merito di Ovidio era stato quello «‘rianimare’ la mitologia greca», riaffermando i diritti della fantasia dopo la deriva «realistica» innescata da Esiodo e il discredito gettato sulle «strabilianti bugie degli antichi poeti», un ruolo analogo svolgerà Puškin nei confronti delle fiabe popolari russe, rielaborando liberamente varie fabulae per creare un’immagine in grado di avvicinare finalmente folklore e cultura alta. L’ombra di Ovidio riaffiora spesso nella sua opera, in ovvia connessione con l’auto-stilizzazione di sé sub specie di poeta esule.

EVOCATO NEL 1824 nel poema Gli zingari («Aveva il meraviglioso dono dei canti / E voce pari a rumor d’acque»), il poeta latino si era in realtà già materializzato nel 1821 in una sorta di epistola a lui indirizzata. Qui Puškin, confinato al sud non lontano dal Mar Nero, tracciava esplicitamente una linea di continuità tra se stesso e Ovidio, morto lontano dalla patria, a Tomi: «Qui, rinvivendo con te i sogni della fantasia / ho ripetuto, Ovidio, la canora tua via».
E così, se da una parte Puškin si «trasformava» grazie a coincidenze biografico-geografiche, nel poeta inviso ad Augusto, dall’altra dieci anni più tardi avrebbe attinto – analogamente a lui – a una precisa tradizione letteraria per cantare la possibilità (o la necessità?) di diventare diversi da quello che si è.
Nella Fiaba dello zar Saltan, da lui composta in tetrametri giambici e rime baciate, il principe Guidon si tramuta prima in zanzara, poi in mosca e infine in calabrone per raggiungere in volo il padre da cui è stato ingiustamente allontanato da bambino e per vendicarsi delle zie che hanno calunniato sua madre. Salvo poi scoprire che il cigno che ha reso possibili le sue prodigiose trasformazioni in realtà altro non è che una meravigliosa principessa sulla cui fronte splende una stella. Un’ennesima, fortunata dimostrazione del fatto che nessuna forma può darsi per compiuta o definitiva.

 

SCHEDA

Comincia oggi una riflessione ad ampio raggio sul concetto di «metamorfosi» che sarà ospitata in queste pagine per due settimane. Una lettura articolata dei cambiamenti «senza confini»: dalla letteratura con i suoi «labirinti» mentali alle donne-ragno della mitologia e gli uomini-insetto di Kafka, fino alle fiabe del folklore di diversi popoli con i loro personaggi magici dalle identità reversibili e ai passaggi di forma umani (la mummia di Similaun o l’inversione di rotta fra vecchiaia e giovinezza). Ci sono poi i demoni e le notti di tregenda medioevali, le cogas, streghe-vampiro sarde, le variazioni sul tema vissute sul corpo in divenire di Pinocchio, le trasformazioni delle piante, il mondo vegetale con la sua incredibile rete di connessioni, il «mascheramento» a cui ricorrono alcuni dei protagonisti della tradizione ebraica.

 

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