Una petroliera minaccia il Mediterraneo
Bouri è il più grande giacimento petrolifero offshore nell’area tripolitana della Libia: circa 110 kilometri a nord di Tripoli. Secondo i dati di Rystad Energy, con 16 mila barili di […]
Bouri è il più grande giacimento petrolifero offshore nell’area tripolitana della Libia: circa 110 kilometri a nord di Tripoli. Secondo i dati di Rystad Energy, con 16 mila barili di […]
Bouri è il più grande giacimento petrolifero offshore nell’area tripolitana della Libia: circa 110 kilometri a nord di Tripoli.
Secondo i dati di Rystad Energy, con 16 mila barili di boe (barili equivalenti di petrolio) al giorno di produzione è una bella fetta dei 61 milioni di boe estratti da Eni lo scorso anno. Sempre Rystad Energy stima quest’anno una produzione pari a 24 mila boe/giorno. Dei 1.152 milioni di boe stimati a «Bouri», Eni ne ha estratti «solo» 583 (dal 1988). Ne restano quasi altrettanti (569 milioni di boe) con una produzione che, per Rystad Energy, potrebbe durare fino al 2099.
Come in molti giacimenti offshore, anche a «Bouri» per immagazzinare temporaneamente la produzione è stata utilizzata una petroliera ancorata nei pressi.
Si chiamano Floating Production Storage and Offloading (Fpso), ovvero: unità galleggiante di produzione di stoccaggio e scarico. Fino a poco tempo fa, a supporto di questo giacimento stazionava una vecchia petroliera dalla storia interessante, fabbricata dai Cantieri Navali di Fincantieri a Monfalcone nel 1973 e varata con il nome di Agip Sardegna.
Lunga 348 metri e con una stazza di oltre 126 mila tonnellate, per un periodo è stata una delle petroliere più grandi (se non la più grande) al mondo.
Nel 2015 il cambio di nome in «Bouri Field Sloug», poi semplicemente «Sloug». Bandiera libica, proprietà della Libyan National Oil Company (Noc), la compagnia petrolifera nazionale libica, e operata dalla Mellitah oil & gas: una società mista 50/50 Eni I e Noc.
Diventata ormai obsoleta, la nave è stata più di recente venduta a uno sconosciuto soggetto libico che ne dovrebbe curare lo smantellamento: dove? Come? Con le operazioni di disancoraggio della Sloug sono però cominciati anche i guai.
Lo scorso 5 novembre, le strutture, probabilmente corrose da anni di esposizione alla salsedine, non reggono e un gruppo di operai tunisini finisce in mare: quattro morti e un ferito grave. Ma non finisce qui.
Le operazioni sulla Sloug continuano, con la nave che viene agganciata a un rimorchiatore e trainata via. E qui inizia quella che, per ora, è solo una tragedia in embrione. Di cui, se non fosse per il giornalista Sergio Scandura e Radio Radicale non sapremmo, ancora una volta, nulla. Il primo dicembre, un avviso ai naviganti di Radio Malta informa che il rimorchiatore Asso Ventinove sta trainando (più o meno a metà strada tra Tripoli e Malta) la Sloug. Qualcosa deve andare nuovamente storto però, perché il 15 dicembre, sempre Radio Malta, avvisa che la Sloug sta andando alla deriva e che Asso Ventinove la sta seguendo per monitorare la situazione. La posizione adesso è ben diversa: ben oltre 400 kilometri a sud est, quasi al largo di Bengasi.
Il 15 dicembre, secondo fonti libiche, l’Autorità dei Porti e del Trasporto Marittimo della Libia avrebbe riferito che la Sloug sarebbe stata nuovamente sotto controllo di Asso Ventinove. Da quello che è possibile ricostruire dai dati satellitari,
Asso Ventinove sarebbe tornato (il 17 dicembre) a Bouri e sarebbe stato nel frattempo prima sostituito e poi affiancato nelle operazioni di traino da un altro rimorchiatore italiano, Almisan. Al momento, parrebbe che i due rimorchiatori stiano trainando insieme la Sloug, direzione Tobruk. Per farci cosa, ancora non si sa.
Questa vicenda coinvolge l’Italia come attore niente affatto secondario. Fossi un ministro che si occupa di tutela ambientale, cercherei di capire cosa sta succedendo e di appurare cosa c’è nella «pancia» della Sloug. E, soprattutto, vorrei capire se la ex petroliera è davvero sotto controllo e dove sta andando (e a fare cosa).
*Direttore delle campagne di Greenpeace Italia
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