Una periferia rurale dalla vita spietata
Intervista Lo scrittore francese Simon Johnannin racconta il suo romanzo d'esordio «L’estate delle carogne», uscito per Alter Ego. «Direi che c’è anche un’altra bellezza, più difficile da accettare: è quella che alberga nell’onestà del rapporto con la morte. È presente in tutto, come una delle componenti della vita e non la sua negazione»
Intervista Lo scrittore francese Simon Johnannin racconta il suo romanzo d'esordio «L’estate delle carogne», uscito per Alter Ego. «Direi che c’è anche un’altra bellezza, più difficile da accettare: è quella che alberga nell’onestà del rapporto con la morte. È presente in tutto, come una delle componenti della vita e non la sua negazione»
La Fourrière è il luogo parlante, nella Francia delle sue periferie rurali, in cui è ambientata la storia narrata da Simon Johannin nel suo romanzo d’esordio L’estate delle carogne (pp. 152, euro 17), edito da Alter Ego nella traduzione di Valentina Maini. È il racconto di una esistenza che comincia in campagna, ma non ha nulla di vagamente bucolico e neppure della retorica neoruralista per cui l’isolamento può funzionare come antidoto salvifico contro un mondo anche peggiore di quello immaginato.
La ristretta comunità che vive attorno al giovane protagonista e lo accompagna nel suo passaggio verso l’adolescenza è spietata, non sembra credere alle magnifiche sorti e progressive. Ciò nondimeno leggiamo di una libertà che trasuda da un vitalismo abbacinante mentre affiora, fra le pagine, un’onesta lucidità nel rapporto con la morte.
Tale comunità non è costituita solo da esseri umani ma è «attraversata» anche da altre specie animali. Ci sono cani, galline, oche e pecore – tantissime – perché questo borgo rurale è abitato da allevatori che sembrano vivere il loro bestiame non esclusivamente come fonte di reddito ma in qualità di un corpo simbolico su cui abbattere un risentimento essenziale. Eppure le carogne del titolo non sono state uccise intenzionalmente: si tratta dei poveri corpi di una parte del gregge spinto maldestramente dai cani e caduto rovinosamente in un dirupo e poi nel ruscello dove i ragazzi sono soliti fare il bagno nella stagione calda. Ecco dove nasce l’«estate delle carogne».
Il sentore di questi cadaveri animali ci arriva tramite la scrittura di Simon Johannin, decisamente sinestetica, che riesce a condurci nell’atmosfera del romanzo tramite l’associazione espressiva di tutti i sensi. Tra tutti, spicca l’olfatto: i miasmi delle carcasse delle pecore in decomposizione nel ruscello, l’odore insistente delle crocchette dei cani e poi ancora quello chimico dei prodotti agricoli. Anche l’udito arriva, contaminando quella tranquillità fantasmatica che immaginiamo – a torto – essere propria delle case in campagna:
«Le mosche sono dappertutto, creano ghirlande da una stanza all’altra lungo i fili appiccicosi che abbiamo piazzato qui e là per intrappolarle, e ce ne sono così tante che dopo poco non si vedono nemmeno più i fili. Sono come grossi cavi neri che vibrano fino a quando tutto ciò che ci sta sopra muore. Sono ovunque, un ronzio sordo che non si ferma mai e che lo fa andare fuori di testa a mio padre e questo è il motivo per cui andiamo di grigliate in giardino ogni giorno. In casa sono persino nei guardaroba e dietro i fornelli, ci proviamo a coprire tutto con gli strofinacci, ma quelle entrano in ogni dove e depongono le uova nel burro e nel formaggio».
Niente è come sognato eppure non è la disillusione a dominare, ma piuttosto un tenersi alla larga dalle briglie teoretiche e ciò si rivela in quella che per Simon Johannin è la consapevolezza dell’incapacità umana di far quadrare la moltitudine della natura, la sua parte gioiosamente meno addomesticata ma anche quella più sacra, con la «maldestrezza» esistenziale dell’uomo.
Il mondo rurale che lei descrive ha ben poco a che fare con la visione bucolica e idealizzata della campagna, rivelando in realtà una natura spietata. Dove si nasconde, qualora esistesse, la bellezza?
Credo che, indipendentemente dal luogo in cui ci si trova, la bellezza si nasconda nel modo in cui si osservano le cose, se questo sguardo è possibile. Anche se la storia che ho scritto non ha molto da condividere con una visione pastorale dell’universo rurale, la bellezza è molto presente, prima di tutto nella libertà. I miei personaggi sono poveri, ma liberi, con una libertà simile a quella dei «Ragazzi» di Pasolini. Liberi di giocare con la morte, di vivere con pienezza le esperienze a loro disposizione e di organizzare la vita a modo loro, di vedere con i propri occhi la violenza anonima del resto del mondo; queste libertà conservano tutto il loro fascino, pur se spietate. C’è poi la meraviglia dei ritmi della natura. Mentre il narratore, durante l’adolescenza, grida spesso il suo bisogno di fuggire da ciò che lo ha visto crescere, rimane in lui l’attrazione per il sole, gli alberi, la notte, gli animali con cui ha una relazione magico. C’è anche l’amore e la nascita del desiderio che non sempre viene annientato dalla brutalità degli esseri umani. Infine, direi che c’è un’altra bellezza, più difficile da accettare: è quella che alberga nell’onestà del rapporto con la morte. È presente in tutto, come una delle componenti della vita e non la sua negazione, il suo contrario.
La violenza non sopita è uno dei fili conduttori del suo romanzo e, fin dalle pagine di apertura, si abbatte sugli animali – onnipresenti. Perché la voce narrante le identifica come prime vittime? C’è anche una benedizione tra i rituali…
Il libro inizia con un arcaico atto di vendetta. I bambini sono vittime di un cane particolarmente feroce e, come possono reagire alcuni animali, si uniscono per affrontare il predatore. Così facendo, sperimentano in prima persona la crudeltà, una sensazione che aleggia nel subconscio del narratore per tutto il romanzo, fino a invadere la sua realtà. I bambini hanno una relazione istintiva con gli animali, custodiscono la capacità di un loro «diventare animale», un’abilità di fondersi con loro. Gli animali sono le prime vittime perché sono condizionati e allevati per il sacrificio. Gli atti di allevamento e di macellazione sono gesti millenari, pieni di affezione e i bambini crescono tra questa eredità e il sentimento reale che manifestano per la vita palpitante nei corpi intorno a loro. Per quanto riguarda la benedizione, cosa posso dire? Una volta ho assistito a questo rituale e deve aver depositato in me qualcosa di potente. Nel mondo giudaico-cristiano, gli animali sono assolutamente inferiori agli uomini, che possono usarli a loro piacimento. Benedirli, nella vita come nella letteratura, è forse il principio di una riparazione, un riconoscimento della loro sacralità che attraversa tutta l’esistenza.
Il libro è articolato in due parti che compongono la biografia del protagonista: l’infanzia e l’adolescenza. L’età adulta?
Avevo tra i 21 e i 22 anni quando l’ho scritto, quindi all’epoca non avevo alcuna esperienza pratica dell’età adulta e non ero in grado di trasporre questo stato a un livello letterario. Appartengo a quel genere di persone che hanno bisogno di vivere per poter scrivere.
La Francia periferica è spesso considerata il «territorio» del razzismo e della miseria economica e culturale, il luogo da cui fuggire. La città mantiene le sue promesse?
La Francia del razzismo è innanzitutto quella della maggioranza del mondo politico e di alcuni milionari che stanno impegnando le loro fortune e mezzi di comunicazione in quella che loro stessi definiscono una «guerra culturale», Lo scopo è installare un potere neofascista che distrugga i servizi pubblici, criminalizzi gli immigrati, gli attivisti per i diritti umani e per l’ambiente, i poveri e faccia apparire le persone lgbtqi+ come devianti. Agiscono acquistando giornali, grandi gruppi editoriali e canali televisivi per imporre la loro visione mortifera del mondo. Nonostante la mobilitazione e la sinistra, i risultati delle ultime elezioni ci hanno mostrato la feroce determinazione dell’estrema destra nel voler colonizzare le menti delle persone. La miseria economica e culturale sono un’altra cosa, e tutte queste persone ne beneficiano. La Francia è così centralizzata che per alcuni esistere significa fuggire verso altre zone.
Spesso ciò serve per rendersi conto che l’erba del vicino non è più verde in città o altrove, ma nel fatto di formare una comunità, di partecipare insieme alla creazione di proposte che ci assomigliano, in uno spirito di non dipendenza da istituzioni culturali la cui autonomia politica non è garantita. L’invasione di Gaza dopo i massacri del 7 ottobre è un esempio eclatante: denunciarla e collocarla nel contesto globale della colonizzazione e dell’apartheid subite dal popolo palestinese significa esporsi alla perdita di finanziamenti e alle accuse di antisemitismo. Naturalmente, la miseria economica, esacerbata da disuguaglianze sempre più evidenti e ingiustificabili, e la repressione brutale dei movimenti sociali, per quanto piccoli, invitano alla rabbia. Poiché i villaggi francesi sono i più dimenticati e i più vulnerabili sono particolarmente esposti al risentimento. Ma non credo che oggi si debba rifuggire; al contrario, penso che sia nostra responsabilità tessere legami sempre più stretti tra mondi diversi.
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