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Una pena nel rispetto della dignità

Una pena nel rispetto della dignitàSan Vittore – Emblema

Carcere La Relazione di Mauro Palma nell’anno dell’orgia securitaria salviniana con il decreto-sicurezza-bis, la criminalizzazione delle Ong , il sovraffollamento, fino alla pandemia

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 27 giugno 2020

Una boccata d’ossigeno in un ambiente denso di nubi, alcune potenzialmente tossiche. La Relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà è stata presentata simbolicamente in un’aula dell’Università Roma Tre. Una scelta, quella dell’università, per evocare quanto la questione delle garanzie, delle libertà, della tortura, della vita quotidiana nei luoghi di detenzione sia anche una questione culturale. Solo un sapere profondo e critico ha la forza di spingere verso trasformazioni sociali e mutamenti di pratiche, altrimenti lesive dei diritti fondamentali.

Un anno complicato è stato quello che Mauro Palma ha dovuto riassumere. È successo un po’ di tutto: l’orgia securitaria salviniana con il decreto-sicurezza-bis, la criminalizzazione delle organizzazioni non governative, le prime inchieste per tortura in giro per le Corti italiane, il sovraffollamento carcerario crescente, l’epidemia e i provvedimenti necessari di deflazione al fine di evitare tragedie e contagi di massa, la concessione di più telefonate e video-chiamate ai detenuti, le morti a Modena e Rieti dopo le proteste, la campagna mediatica nel nome di una presunta anti-mafia contro talune scarcerazioni della magistratura di sorveglianza, i nuovi numeri in crescita della popolazione detenuta.

Mauro Palma ha costruito un mosaico complesso, i cui tasselli sono piccole fotografie tenute insieme da un’idea di fondo, che è quella espressa inequivocabilmente all’articolo 27 della nostra Costituzione: la pena non può consistere (mai) in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere (sempre) alla rieducazione del condannato. Se ne facciano una ragione tutti coloro che amano vivere fuori dal confine dei valori e dei principi costituzionali.
Anche se Liana Milella, autorevole giornalista di Repubblica, nell’intervistare Mauro Palma afferma che la nostra Costituzione non dovrebbe valere per i mafiosi che hanno ucciso Falcone e Borsellino. La sua è un’anomala, nonché illegittima interpretazione di norme scritte con il sangue e il dolore di chi aveva vissuto l’esperienza tragica del carcere fascista, condita da abusi, violenze e torture. Sarebbe importante se gli stessi magistrati impegnati nella lotta alle mafie, così come ha fatto Mauro Palma nella risposta alla giornalista, ribadiscano che l’articolo 27 della Costituzione vale per tutti e che a nessuno può essere tolta la dignità umana.

C’è una parola su cui Mauro Palma si è soffermato nella sua Relazione: anonimia. Il detenuto è spesso reso anonimo, ridotto a numero. L’affollamento carcerario lo rende a volta indistinguibile: nomi e volti sono ignoti agli stessi operatori penitenziari che, sempre in difetto di organico, devono confrontarsi con una gran quantità di persone. In questo modo non sarà per loro possibile intercettare la disperazione di chi sta in carcere. I suicidi nelle prigioni sono in molti casi esito di una profonda disperazione individuale, che però le istituzioni non intercettano. Il detenuto suicida resta dunque un numero, uno dei ventitrè che si è tolto la vita nel 2020. Così come anonimi sono i tredici detenuti morti lo scorso marzo e anonimi sono tutti quei migranti, lasciati affogare o torturare fuori dai nostri intoccabili confini. E, infine, anonimi restano tutti quei direttori, educatori, poliziotti che ogni giorno si dedicano al rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Ammutoliti e resi anonimi anche da chi si erge a loro rappresentante sui luoghi di lavoro. Vi sono sindacati autonomi che al posto di lottare per una pena costituzionale nonché per una trasformazione moderna e gratificante del lavoro del poliziotto, chiedono l’abrogazione del reato di tortura o della legge istitutiva del Garante. Noi, invece, siamo felici di avere avuto nel lontano 1998 (il primo disegno di legge aveva quale firma di apertura quella di Ersilia Salvato) quell’intuizione che ha portato oggi a disporre di un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura, così autorevolmente presieduto.

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