Ci sono state vite partigiane che hanno cumulato tali carichi di dolore e violenza subita che poi, anche sopravvissute alla ferocia nera, si sono come ritratte in un grumo di imprendibilità, di allontanamento dalla concitazione degli eventi. Se tali vite partigiane sono poi declinate a femminile, l’offesa e la bestialità in camicia nera o dalle «teste di morto» quasi raddoppiano il carico di angoscia da smaltire, nella vita tornata «normale».

UNA STORIA ANCORA da ricostruire in tutto, compresi i numeri, come ci racconta nel suo contributo Donatella Alfonso (già autrice di diverse ricerche sul partigianato al femminile) al libro Lina. Partigiana e letterata amica del giovane Calvino, di Daniela Cassini e Sarah Clarke (Fusta editore, pp. 176, euro 16,50): ci sono quelli senza margini di dubbio, le 2812 donne partigiane fucilate o impiccate, le 1070 cadute in combattimento, le 2750 deportate in Germania nei campi di lavoro forzato e di sterminio.

C’È UN’AREA GRIGIA di numeri che ricostruisce almeno un milione di presenze femminili di donne, ragazze, bambine che furono Resistenza. Ricostruire le trame che scoloriscono nel tempo tali esistenze e continuare ad essere grati a queste persone, argini viventi di un nulla furioso che avanzava, è doveroso, e spesso rivela anche inaspettati aspetti poetici.
Così è stata la vita di Lina Meiffret, partigiana e letterata, amica del giovane partigiano Italo Calvino. Una donna che avrebbe potuto vivere un’esistenza agiata in un punto d’Italia che ben si sarebbe prestato all’indifferenza politica, l’estremo ponente della Liguria assolato delle ville eleganti, vicino a quel confine francese dove Mussolini voleva «qualche migliaio di morto, per sedersi al tavolo della pace», e scelse invece di essere partigiana e comunista in prima linea. Pagando per il resto dei suoi giorni un carico di ricordi atroci da sopravvissuta che ebbe solo parziale, lenitiva consolazione nella letteratura, nella scrittura e e nelle traduzioni, nelle amicizie forti con Italo Calvino e tanti altri uomini di lettere che seppero anche imbracciare le armi ed essere partigiani.
La vita intensa, feroce e sfaccettata di Emanuela «Lina» Meiffret, partigiana e letterata, è ricostruita nel dettaglio e con la riproduzione fotografica di decine di documenti originali, sotto l’egida dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea.

ERA UNA RAGAZZA di buona famiglia e ottime disponibilità economiche, aveva studiato alla Sorbona e in Svizzera, conosceva la lingue. Eppure a Sanremo, nei mesi che precedettero e seguirono l’8 settembre divenne una figura centrale nell’organizzazione della Resistenza nei capisaldi montani accanto al suo compagno, l’intellettuale Renato Brunati ( poi arrestato con lei, torturato e fucilato dai nazifascisti al Turchino), a Italo Calvino, a Guido Seborga e tanti altri. Tradita da una spia, Lina Meiffret nel febbraio del 44 venne catturata, conosce l’orrore della torture per giorni e giorni prima a Imperia, poi nel carcere di Marassi a Genova.

INFINE, RIDOTTA ALL’OMBRA di se stessa viene deportata in Germania a Stoccarda, in un campo di lavoro forzato, poi finisce in un campo di disciplina della Foresta Nera: alla fine riesce avventurosamente a farsi trasferire a Vienna con l’aiuto di un medico che ha ancora residui di umanità e farsi passare per «operaia volontaria». Sopravvive. Lei, «la prima partigiana», nella parole di Calvino, vivrà poi appartata il resto dei suoi giorni, tra la Val Badia e l’isola di Ponza, scrivendo e traducendo. In una sua poesia aveva scritto: «Per vivere in un porto è necessaria almeno la memoria della tempesta».